Su “Il Sole di Mezzanotte” di Aleksandr Dugin

Qualche giorno fa mi trovavo a Siena, ed ero seduto assieme a mia moglie sui muretti che circondano la straordinaria piazza Duomo. Vi ero stato una sola volta, in precedenza, e non mi ero del tutto soffermato sulla facciata della Cattedrale. Complice il tramonto, cheproiettava ombre dechirichiane sulle geometrie basse e raggi infuocati su quelle alte, e mio alleato un buon bicchiere di Chianti (rigorosamente naturale), mi sono concentrato sul ciclo di statue di Giovanni Pisano: un unicum, per il gotico italiano, dentro al quale da sinistra a destra, tutta la Tradizione occidentale annuncia la Venuta di Cristo. Platone, Abacuc, la Sibilla, Re David, Re Salomone e Mosè; Isaia, Balaam, Maria e per chiudere, Aristotele. Tutti a cornice del portale centrale, sovrastato dall’enorme Trigramma di Cristo: un Sole frecciato di color bronzeo.

Un Sole scuro, quindi. Nero. Un sole di Mezzanotte? Chi non crede, crede alle coincidenze. Alle suggestioni. Chi crede, al contrario, ritiene ogni cosa possibile segno e comunicazione. Di lì a breve avrei letto d’un fiato il compendio dell’ultima opera di Alexsandr Dugin, l’Aurora del Soggetto Radicale. Non ritengo opportuno entrare nello specifico del testo. Dugin regala spunti di grande interesse, di conoscenza esoterica e riflessione filosofica. Tutti elementi che devono essere lasciati al dialogo fra lettore ed autore. O come nel mio caso, fra autore, lettore ed i segni che ci circondano. Possiamo tuttavia dare un giudizio complessivo del senso che Dugin dà del suo medesimo testo. E qui ci troviamo, effettivamente, difronte ad una novità, non soltanto editoriale o culturale ma anche politica.

Nel banale riconoscimento che l’autore fa del passaggio fra modernità e postmodernità, Dugin impone un’opposizione al mondo attuale che nessun autore di peso, in precedenza, era mai riuscito a rendere effettivamente vitale: non il più grande osservatore e testimone di quello stesso passaggio quale fu Ernst Junger e che anzi da lo Stato mondiale, sino alle pagine de Al Muro del Tempo, si rende viaggiatore neutrale del carsico mondo della nuova Grande Madre; e nemmeno Julius Evola, qui pluricitato, “tradizionalista del tramonto” e per questo, per quella crepuscolare altezza dei tempi, impelagato in una impari lotta dialettica fra passato e attualità.

Quello di Dugin è dunque un’analisi ed un invito rigorosamente heidegerriano. O se volete, più semplicemente, un invito aristotelico. Il soggetto radicale rappresenta colui che, nel buio più totale, è in grado di accendere il nous poietikos: quella parte del nostro essere capace di parlare con l’Uno e di riaccendere, senza alcun riflesso, senza alcuna effettiva iniziazione, la nostra parte Sacra e per questo Giusta. Vi è in questo libretto, effettivamente equiparabile agli evoliani Orientamenti postmoderni, un radicalismo, io dico persino politico, che potrà essere ben inteso e ben divulgato, da tutti coloro che oggi cercano di restare in ordine in un mondo fatto prevalentemente di bassezze, ingiustizie e caotiche accelerazioni. Dugin riporta in alto un certo orgoglio virile nella ricerca del proprio perfezionamento spirituale: perché, come un mio caro amico e maestro ha voluto insegnarmi, la Fede, il cammino verso Dio, qualsiasi esso sia il nome che diamo al Sacro, non è un dono od un percorso gioioso, ma una durissima lotta dentro e fuori noi stessi.

Il Soggetto radicale di Dugin ha dunque vinto la propria lotta interiore. Accompagna la discesa dei tempi non come un osservatore né come un conservatore; è definito un Assassino. E’ un guerriero che ha riacceso la luce. E nella Grande Mezzanotte in cui viviamo, nel Grande Deserto che stiamo attraversando, tutto ciò non suona come retorico o folle. Piuttosto, risplende di chiarezza.