Perché leggere “La quarta teoria politica” di Aleksandr Dugin

Affrontare la lettura della prima opera di Aleksandr Dugin integralmente tradotta in Italia comporta il rischio di soggiacere al pregiudizio dell’immagine che l’autore abbia acquisito nei mezzi di comunicazione occidentali; l’idea cioè che il pensatore russo sia, direttamente o indirettamente, l’ispiratore del realismo geopolitico della Russia contemporanea, cioè un intellettuale funzionale alle politiche di Vladimir Putin. A questo proposito, basterebbe ricordare il fatto che il contratto di insegnamento del professor Dugin presso l’Università di Stato di Mosca non è stato rinnovato dal giugno 2014 per motivi politici, e comunque, nell’analisi seguente, ci sottrarremo completamente a tali argomenti per due motivi: il primo attiene all’onestà intellettuale, che deve tendere a confrontarsi oggettivamente con la riflessione filosofica dell’autore; il secondo discende dal primo, nel momento in cui l’attuale frangente di confronto internazionale vede l’Occidente a egemonia statunitense adoperare tutti gli strumenti a disposizione per identificare nella Russia un “nemico oggettivo”, operando un’esplicita azione di mistificazione propagandistica su qualsiasi riferimento culturale che provenga da quel Paese. In tal senso, ci limiteremo in questa sede a consigliare dei testi – peraltro alcuni già recensiti su Diorama Letterario – esemplari per comprendere le dinamiche in atto e il profilo politico effettivo di Aleksandr Dugin. Ci riferiamo in primis a Russofobia. Mille anni di diffidenza(Sandro Teti Editrice) del giornalista svizzero Guy Mettan, che ricostruisce le linee di forza religiose, geopolitiche e ideologiche di cui si nutre la russofobia; quindi all’opera di Paolo Borgognone, Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina post-sovietiche(Zambon Editore), unita a Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica (Edizioni Controcorrente) di Alain de Benoist, con cui si rendono chiare la genealogia e l’assoluta indipendenza dell’elaborazione teorica dell’autore rispetto agli equilibri di potere e agli assetti istituzionali della Federazione Russa. Significativo è anche l’ampio saggio di Roberto Pecchioli, Uscire dal XX secolo. Un’idea nuova per il Terzo Millennio. Per una Quarta teoria politica (Ereticamente), vera guida alla lettura del testo di Dugin, data la ricchezza e complessità dei temi che qui potranno essere solo accennati. In ultimo, il coerente profilo biografico-intellettuale che introduce il testo in oggetto, Comprendere Dugin– curato da Andrea Virga – che consente filologicamente una corretta esegesi della matrice endogena dell’ispirazione filosofica dell’autore, unita ai contributi esogeni. E da questo possiamo sicuramente partire, constatando la grande ecletticità della riflessione di Dugin, che si risolve non in uno strumentale sincretismo ideologico, ma in un pensiero paradigmatico capace di arrivare alla riflessione politologica solo dopo avere suscitato chiavi di lettura gnoseologiche, epistemologiche, antropologiche e sociali di grande profondità, capaci cioè di porci di fronte allo scenario epocale del significato della civiltà e della sua decadenza.

Aleksandr Dugin è essenzialmente un filosofo. La sua vasta erudizione, unita alla propensione speculativa, lo porta a una necessità metodologica chiarificatrice. Per lui, “circolo ermeneutico” significa il nucleo forte, fondante di una dottrina, che egli identifica nell’heideggeriano “Dasein” (esserci), sinonimo di un uomo che sta nel mondo, che ha l’esistenza come specifico modo di essere. Il “Dasein” reinterpretato da Dugin è la volontà di declinare idee, storia e realtà di un soggetto consapevole, che concretamente vivee aspira a interpretare, comprendere e farsi partedella totalità cui appartiene.Nella parola composta esser-ci, la particella enclitica “ci” simboleggia i due caratteri dell’uomo, ovvero la sua esistenza spazio-temporale (essere-qui-ora) e la sua apertura all’Essere, all’infinito, alla trascendenza, alla dimensione spirituale della vita.L’uomo trascende la semplice esistenza e non può ridursi a mera presenza, è necessariamente progetto;da qui, la cura verso gli enti del suo conoscere e agire. Basandosi su questa linea interpretativa, Luisa Bonesio ha dato sviluppo, nel nostro Paese, alla geofilosofia, che si propone come sapere transdisciplinare impegnato a raccogliere e a confrontare prospettive di diversa matrice provenienti dalla geografia, dalla filosofia, dall’estetica e dall’antropologia. Al centro dell’interesse, viene posto il tema della pluralità dei luoghi della terra a confronto con la crescente omologazione delle tecniche in un mondo globalizzato. La geofilosofia non è una “filosofia della terra” o semplicemente una “geografia filosofica”, ma un pensiero-terra, che corrisponde all’intuizione di PiotrSavitzky – verso cui Dugin si sente debitore –per il quale ciascun luogo ha in sé l’essenza di ciò che vi è avvenuto e vi si è sviluppato, o vi si svilupperà nell’avvenire: lo spazio come destino. Contrapposto al titanico “spazio vitale” (lebensraum), teso alla conquista e alla sopraffazione dell’altro, è invece “luogo della vita”, in cui si svolge al meglio la vicenda concreta dei popoli che vi sono insediati e per ciò stesso condividono una certa idea di sé, appropriata culturalmente e sostenibile ecologicamente.

Al posto dell’universalismo, va colto il “pluriversalismo”, antidoto all’etnocentrismo dell’occidentalizzazione del mondo – cioè la globalizzazione – basata, in realtà, su principi localmente e storicamente dati (mercato, capitalismo, sviluppo tecno-scientifico illimitato, individualismo, liberaldemocrazia, diritti umani). Questi istituti, relativi a una cultura specifica, vengono imposti all’intera umanità come universali, ostracizzando di conseguenza i valori degli altri popoli e delle altre culture, giudicatecome sottosviluppate e destinate all’assimilazione nella modernità. Andrebbero quindi profondamente meditate le parole di Carl Gustav Jung, il quale asseriva che «non esiste l’umanità. Io esisto, voi esistete. L’umanità è soltanto una parola. Siate ciò che Dio vuole che siate; non vi preoccupate per l’umanità. Preoccupandovi dell’umanità, che non esiste, eludete il compito di guardare a ciò che esiste: il Sé»1.

Sulla base dei suddetti elementi concettuali,Dugin non puòche essere profondamente critico nei confronti di quella particolare forma mentis occidentale, che definiamo “ideologia del progresso”. Grandi interpreti della sociologia- da Émile Durkheim a Pitirim Sorokin –hanno sostenuto che il progresso sociale non esiste,è solo una costruzione artificiale, secondo i dettami del tempo. Ed è assai originale il riferimento del pensatore russo alla elaborazione di Gregory Bateson, antropologo, sociologo ed epistemologo tra i maggiori del XX secolo, nonché punto di riferimento della critica ecologista al riduzionismo della società tecnomorfa. La critica di Bateson si concentrò sui cosiddetti “processi monotònici”, quelli cioè che procedono in una sola direzione cumulativa costante. Gli alberi non crescono indefinitamente, gli animali e gli uomini neppure. Tale è l’assunto di base delle tesi della decrescita, della bioeconomia di Nicholas Georgescu Roegen.I processi monotònicinon esistono né in biologia, né nel funzionamento delle macchine e, tanto meno, possono funzionare nelle società umane. Questo processo, quando avviene in natura, è incompatibile con la vita, distrugge la specie; nell’ambito della organizzazione tecnica, comporta la rottura; nell’ambito sociale, porta all’anomia e al declino. Un colpo netto quindi assestato all’idea della crescita indefinita, del determinismo, del progresso lineare, del “dopo” e del “nuovo” sempre superiori, migliori, del“prima”. «Processi monòtonici, come l’incremento della popolazione, in molti casi conducono alla guerra, la quale torna a ridurre la popolazione stessa», scrive Dugin, e soggiunge che «nella società attuale vediamo livelli di progresso tecnologico senza precedenti, insieme a un incredibile degrado morale», come già è stato detto – tra gli altri – dalnume dell’etologia contemporanea, Konrad Lorenz. Il principio di progresso infinito e indefinito, senza altro scopo e direzione all’infuori di se stesso, è l’espressione più evidente dell’ideologia contemporanea, sconosciuta alle tradizioni di tutte le culture indigene, come hanno ampiamente dimostrato gli antropologi. Non vi è dunque processo monotòno, cui non corrisponda l’incremento in un campo che determina il decremento in un altro. Del resto, questodimostra il secondo principio della termodinamica e la legge della entropia, nell’assoluta indifferenza da parte di sociologi, economisti e scienziati della politica, nonostante la messa in guardia fornita dalla teoria della complessità di Edgar Morin e le acquisizioni di Ilya Prigogine sulle “strutture dissipative”.

L’idea di evoluzione meccanicistica vettoriale (caso e necessità) va espunta decisamente tanto dall’orizzonte filosofico quanto da quello scientifico, ove nuovi paradigmi olistici e della complessità evidenziano la ciclicità dell’evolversi in forma e funzione. L’antropologo Marcel Mauss, nel suo capitaleSaggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, ha dimostrato che le società tradizionali si caratterizzavano sulla distruzione rituale e sacrificale di ogni eccesso. L’usura è l’interesse edonistico dell’eccedenza che si fa sistema contro il valore d’uso comunitario dei beni prodotti, un’alterazione della misura cosmogonica. La visione del mondo degli antichi era consapevole che l’aumento di risorse in un luogo ingenera una riduzione altrove, causando uno squilibrio generale da scongiurare con l’esercizio del potlach, che consisteva nel dono o nella distruzione intenzionale di ogni proprietà in eccesso.

La parola “civiltà” ha avuto una circolazione e un peso notevoli, nell’elaborazione dell’ideologia del progresso. All’opposto, i “pensatori della crisi”l’hanno considerata lo stadio terminale della culturaproblematizzandolo nel concetto di “Kultur-Zivilisation”, secondo cui la civilizzazione altro non è che un ulteriore processo monotòno, al quale va contrapposta la ciclicità della natura e della vita.Il paradigma del progresso – in realtà,il fideismo superstizioso e paradossalmente antiscientifico che lo circonda –vaquindi respinto a favore della ciclicità, così come deve essere rifiutato l’assioma dell’irreversibilità del tempo storico; tanto più che la specificità della cultura egemone consiste nella celebrazione del presente non solo come migliore, ma come unico mondo possibile, cui non si può contrapporre alcun altro progetto o alcuna altra ipotesi. Come sottolinea Francesco Germinario, nella logica della Forma-Capitale«se una storia può ancora darsi, essa riguarderà solo i processi in cui il presente si riproduce: dalla storia si è transitati nella post-storia, il presente può essere solo amministrato»2.

Tutte le ideologie politiche della modernità si sono identificate nella possibilità di un costante e cumulativo miglioramento della società, del processo storico come una finalità lineare della crescita. Si sono certamente poi differenziate nell’interpretazione di questo processo attribuendogli significati differenti, ma tutte si riconoscono nell’irreversibilità della storia e nel suo carattere “progressivo”. È perciò fondamentale, per Dugin, porre a base della sua teorizzazione filosofico-politica la negazione dell’irreversibilità della storia, compresa quindi anche la regressione deterministica da uno stadio superiore a uno decadente contemporaneo. Tanto il progresso come la regressione sono reali, ma relativi, non assoluti; non rappresentano una tendenza inerziale della storia. Il tempo è un fenomeno culturale e sociale, le sue strutture profonde dipendono non da una serialità meccanica, ma dall’influenza del paradigma dominante, perché l’oggetto è assegnato pluralisticamente dallo “spirito dei tempi”, non da un unico “spirito assoluto” che – con la dialettica hegeliana – si estranea da se stesso per poi imporsi quale metro razionale universale. La civilizzazione è,di conseguenza, un concetto ideologico che si infrange contro il muro della post-modernità, ove nel cuore stesso dell’Occidente si sviluppano categorie concettuali utili alla critica più radicale e alla vera e propria “decostruzione” del presente in favore della sincronicità di più civiltà.

Dai “filosofi del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud), argomentati da Paul Ricoeur, fino allo strutturalismo di Lévi-Strauss, i pensatori postmoderniBarthes, Focault, Derrida, Deleuze e Guattari vanno a contraddire la convinzione che l’uomo si stia emancipando dalla prigione dell’inconscio a favore del regno della ragione. Appare invece evidente–in controtendenza– come istinti e archetipi persistano nell’inconscio personale e collettivo, e il “Mito” con le sue suggestioni influenzino e predeterminino l’approccio logico. L’attività razionale si dimostra essere un tentativo di reprimere l’istinto e l’intuizione con sempre più complessi meccanismi psicologici difensivi di rimozione, proiezione e falsificazione indotta. Questo è un punto – a nostro dire – veramente centrale della riflessione di Dugin, perché la civilizzazione non si limita a eradicare il diverso da sé come “selvaggio” e “barbarico”, ma si costruisce essa stessa – strada facendo – su basi “selvagge” e “barbariche”, che migrano nell’inconscio individuale e collettivo della modernità. Il moderno secerne la massima contraddittorietà tra la pretesa illuministica e pacifica della ragionee iconflitti mondiali, i genocidi di massa, gli inusitati stermini etnico-religiosi di intere razze e Popoli. L’apparente crepuscolo della guerra come istituzione viene sostituito da una violenza terroristica generalizzata e asimmetrica. L’idea astratta di uguaglianza, che nella geopolitica si converte inevitabilmente nel dominio di qualcuno su qualcun altro, è un evidente unipolarismo imperialista. La civiltà occidentale risulta dalla volontà faustiana di porsi al di sopra delle altre civiltà, di stilare graduatorie, di considerarsi universalmente valida, di giudicare tutto e tutti sulla base di un imbarazzante criterio: avanti o indietro, rispetto al proprio modello postulato come insuperabile.La civilizzazione non sostituisce affatto la “barbarie”, né la segue cronologicamente: esse convivono e anzi, dati i mezzi tecnologico-scientifici a disposizione, si nutrono vicendevolmente in una spirale gravida dell’impensabile, come l’utilizzo dell’armamento nucleare, emblematicamente a opera della nazione elevata ad alfiere del processo in atto: gli Stati Uniti.

Due sono le vie possibili nel futuro: l’unificazione mondiale in un unico modello dominante, oppure il riconoscimento delle ragioni delle altre civiltà. La civilizzazione occidentale ha dimostrato di affrontare la questione sulla base di un principio assimilatore, considerando l’altro da sé imperfetto, residuale, marginale ed eretico, con il conseguente tragico corredo di “guerre infinite”, unilateralismo e distruzione dell’equità nelle relazioni internazionali e un progressivo prolasso di ogni codice etico e normativo nell’agire politico. Di contro, Dugin si spende nel porre al centro della propria opzione teorica un criterio “sincronico” della diversità e della convivenza di più civiltà, che si identificano in spazi geografico-culturali uniti da vocazioni spirituali e storie comuni: «Ogni civiltà reinterpreta la sostanza secondo i propri modelli inconsci, in cui religione, cultura, linguaggio e psicologia giocano un ruolo determinante». Non un universo, quindi, ma un pluri-verso e, in tale ottica, la globalizzazione è la morte del tempo in quanto si considera fine della storia.La civiltà assume un senso se èdifferenzialista, e diviene centrale e prioritaria nell’analisi della scienza politica, sostituendo i cliché della vulgata liberale egemone. L’autodeterminazione, unita al recupero di sovranità partecipate, è l’evento che va non atteso, bensì preparato, progettato, conquistato. È il senso ultimo del “Dasein”, perché l’esserci e l’esistenza non hanno significato alcuno se non entro comunità libere, dato che proprio sul significato di libertà si pone il discrimine dell’oltrepassamento della modernità. Ci aiuta, in questo, la lettura metafisica del rapporto con il nulla di Andrea Emo: «La libertà individuale, la famosa dignità umana in cui si concentra secondo il moderno indirizzo politico tutto il significato della civiltà, questa libertà individuale come si ottiene? Dando agli individui un’astratta libertà? Una libertà di atomi incondizionati e indeterminati? Una libertà “meccanica”? La libertà individuale necessita di un fuoco, di un entusiasmo, di una fede (o scopo: uno scopo non si crea che con una fede) che proviene da oltre l’individuo. L’individuo è un paradosso come tutto ciò che è spirituale, è soltanto in quanto si nega»3.

Siamo quindi al cuore di quella che l’autore definisce la«quarta teoria politica», che dà appunto il titolo all’intero saggio.Le ideologie sono state le protagoniste della politica moderna, caratterizzando il conflitto nella società di massa contemporanea. Tra le molte sorte, e poi tramontate, ad avere mobilitato le generazioni sono state quelle espresse dal liberalismo (sinistra e destra), dal comunismo (compresi socialismo, marxismo e socialdemocrazia) e dal fascismo (insieme al nazionalsocialismo e alle declinazioni varie della “terza via”). Illiberalismo è quindila prima teoria politica. Nata già nel XVIII secolo, si è dimostrata la più aderente al determinismo della modernità, persistendo e prevalendo su tutti i suoi avversari. Dunque non tutte le teorie politiche sono tramontate. Una è rimasta seduta su un trono grande quanto il mondo. Non ha più una dimensione politica e rappresenta non più una libera scelta, ma l’unico campo in cui si può giocare la partita dell’umanità: l’economia.

Con la vittoria del liberalismo, l’individuo è diventato il soggetto di riferimento per tutta l’umanità, emancipato da ogni appartenenza comunitaria e identità collettiva, catalizzato dall’ideologia dei diritti umani e dall’onnipervasiva catechesi del “politicamente corretto”. Il liberalismo è cioè riuscito nell’intento di sostituire il “politico” con l’autoregolazione amministrativa del presente e il moralismo, tanto da essere ormai– paradossalmente–più che una idea politica, una sussunzione totalitaria della realtà. Permeandosi nel profondo del tessuto sociale e dei comportamenti indotti, il liberalismo è oggi l’ordine naturale delle cose, la dittatura dei nostri tempi. La politica diviene biopolitica –delle “particelle elementari”, direbbe Michel Houellebecq– mezzo con cui il sistema regola la vita biologica e fisica attraverso dei nuovi istituti giuridici, il condizionamento tecnologico, la medicalizzazione di ogni atto e momento dell’esistenza, il controllo della stessa riproduzione, la polverizzazione della famiglia, e dove lo scambio, la produzione, il consumo, la rapida sostituzione del “materiale umano” (eugenetica, eutanasia, immigrazione di massa) disegnano un vitreo e distopico palcoscenico post-umano.

In questa cornice, non sono in dissolvenza semplicemente le ideologie, ma la politica stessa, ragione per cui chi non aderisce al conformismo esistente si trova nella difficilissima condizione di constatare che il nemico trionfante è in realtà impalpabile e i modelli critici pregressi sono dei simulacri che alimentano ininfluenti settarismi marginali. Il conflitto assume una partitura metapolitica, andando a confliggere contro i mulini a vento della “dromocrazia”. È il neologismo postulato da Paul Virilio per descrivere l’iperrealtà mediatico-digitale della “tecnoscienza”, che plasmala societàcome mero riflesso della comunicazione commerciale dei media (infotainment).Il punto è che noi oggi chiamiamo “liberalismo” una teoria che non è più tale, giacché si è liberata della sua componente politica ed etica per diventare quasi esclusivamente la giustificazione teorica di un’idea economica dell’esistente. La mercificazione abolisce tutti i confini materiali, i limiti morali, le compagini statali e le tradizioni religiose, al fine di dilatare il potere del mercato; in cambio, il liberismo offre una particolare sub-ideologia, quella dei diritti umani e civili, che sopprime progressivamente i diritti sociali e i doveri comunitari, determinando delle società “libertarie”, prive di vincoli e di etica comune,precipitate verso il nulla e l’odio di sé. La misura delle cose – scriveDugin – è il post-individuo, il “dividuo”, che mette in scena una surreale combinazione di parti di persone diverse (organi, cloni, rappresentazioni di genere, fino ad arrivare ai cyborg e ai mutanti). La proprietà privata diviene idolatria comportamentale e trasforma «ciò che un uomo possiede in ciò che possiede l’uomo». La “società civile”spoliticizza il governo della cosa pubblica e converte il bene comune in un melting pot globale, apolide e cosmopolita.

È possibile contrastare tutto ciò? L’ambizione della “quarta teoria politica” prova a soddisfare tale esigenza, ma per approssimazione e assimilazioni. Albert Einsteinaffermava: «Non si può risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che lo ha creato». Non può essere un’ideologia, bensì un modo dinamico di pensare e confrontarsi nel mezzodi una transizione epocale. La storia rimane una dinamica aperta, perciò politica, su cui muovere l’immaginario individuale e collettivo oltre il dominio dell’esistente.Ecco quindi la centralità di un concetto, che Thomas Kuhn ha introdotto per descrivere epistemològicamentele rivoluzioni scientifiche: è indispensabile rovesciare il paradigma, ovvero affrontare, revocare in dubbio e abbattere le idee forza e l’assiomatica corrente, che è quella del mondo liberale, liberista e libertario, inquietante miscela tra società dello spettacolo e sottocultura del consumatore, all’ombra dell’abolizione della politica.

Se Occidente significa modernità e diritti dell’uomo, ed è quindi non un luogo ma un concetto meta-geografico e universale, specularmente uguale deve essere la categoria da contrapporvi. Una metapolitica dell’Imperium di grandi spazi plurali. La civiltà consente una partecipazione olistica di ogni sua componente. La ragione e i sistemi filosofici, sociali, politici ed economici da essa creati sono in grado di svilupparsi secondo tendenze e caratteristiche appropriate e sostenibili, mentre l’inconscio collettivo mantiene liberamente i propri archetipi. Il riconoscimento della molteplicità etnoculturale, l’affermazione del principio di sussidiarietà, la distinzione tra nazionalità e cittadinanza, l’iscrizione delle sovranità in una cornice giuridica che le trascende e federa sono tutti elementi da declinare nell’attualità come riferimento all’elaborazione del concetto di Impero, un principio consono alla “philosophia perennis” e alla sapienzialità tradizionale. Dugin, in tal senso, rimanda a una realtà geopolitica, l’Eurasia, che tuttavia non va intesa tanto fisicamente quanto piuttosto mitopoieticamente. Il soggetto storico non è l’individuo, o la classe, o lo Stato, oppure la razza, ma l’uomo che intraprende consapevolmente una lotta esistenziale e metafisica contro la globalizzazione e l’imperialismo dei valori occidentali (la società aperta, i diritti dell’uomo, la società di mercato ecc.)per mezzo di un comunitarismo volontaristico.PerDugin,anzi, l’Europa e la Russia restano due soggetti distinti, che condividono però un destino strategico continentale comune. Possono, e probabilmente devono, diventare un unico grande spazio caratterizzato da due poli, due “spazi vitali”. La condizione preliminare è quella di liberarsi, da parte europea, della soggezione atlantica.

Europa-potenza o Europa-mercato?Il Mare è all’origine della modernità, mentre la Terra è la permanenza, la ciclicità che il contadino conosce e padroneggia nei tempi della semina e del raccolto, che è “eterno ritorno”, o meglio il ritorno dell’Eterno. Questa visione implica una prospettiva che risale ad Aristotele, al principio per cui lo spazio, quel certo “spazio” è il luogo naturale dove avvengono determinati fatti e non altri; il campo d’azione dell’uomo come “animale politico” (zôon politikòn). In questo senso, l’analisi geopolitica si sottrae al determinismo e assume una valenza nuova -idealtipica – e sarebbe il più grande errore considerare il futuro come un semplice prolungamento (o una semplice amplificazione) dei sedimenti aviti o delle tendenze attuali. Le cose cambieranno quando un nuovo “nomos della Terra” sarà apparso, al cospetto di un crinale tragico; per cui risultano definitive le parole di Friedrich Nietzsche: «L’Europa si farà sul bordo di una tomba».

Se le classi dirigenti liberali gestiscono il declino del proceduralismo democratico nella deriva tecnocratico-oligarchica, l’intelligenza critica deve essere comunitarista. Dugin cita esplicitamente l’opera di Louis Dumont – il magistrale Saggio sull’individualismo – per sottolineare come la principale analisi capace di opporsi all’individualismo sianon il marxismo, ma l’olismo. Nel quadro dell’antropologia e della sociologia, è il modello capace di operare lo scarto rivoluzionario. L’olismo si presta non solo a criticare scientificamente il liberalismo delle élite, ma anche a declinare la richiesta di partecipazione sociale delle masse disgregate della postmodernità. Se Ortega y Gasset, con La ribellione delle masse, aveva colto il culmine novecentesco di una modernità priva di tipi sociali capaci di indirizzare il destino degli eventi storici, Cristopher Lasch, con La ribellione delle élite, ha illustrato come le classi dirigenti postmoderne riflettano le principali caratteristiche della massa. Le attuali classi dirigenti esprimono la mediocrità di una visione del mondo tanto gretta quanto utilitaristica, annegando nel cinismo e nella spregiudicatezza qualsivoglia senso del dovere e della responsabilità collettiva. L’olismo si pone quindi come discrimine della contrapposizione politica e della trasformazione sociale oltre la modernità e la sua deriva nichilistica.

L’uomo faustiano è stato l’apprendista stregone della società industriale, ha evocato forze titaniche che hanno ingenerato sommovimenti dissolutivi. Goethe, nel Faust, descrisse l’essere umano carpito dalla cupidigia dell’estrazione dell’oro che si trasforma in ricchezza di carta e usura, ma ora siamo a un passaggio ancora più radicale. Se prima la realtà prendeva la misura della moneta, ora nella rete digitale diviene pura virtualità, seguendo iperboliche serie di algoritmi.La fisica e la filosofia contemporanee hanno rivalutato l’idea del Caos, riferita non a un qualunque e informe disordine, ma ai sistemi complessi, alle equazioni con più risultati aperti, i quali, in realtà, costituiscono un ordine più complesso, difficile da afferrare nell’esperienza naturale, ma esistente; quindi il caos, in questa accezione, è una struttura dissipativa del logos, ultima propaggine del suo crollo e della sua decomposizione. Gilles Deleuze e Félix Guattari – non a caso – vorrebbero persuaderci della bontà del postmoderno come aggregato di frammenti non componibili che possono coesistere (rizoma), cui si può ben contrapporre l’intuizione di Alain de Benoist,secondo il quale bisogna invece pensare simultaneamente ciò che appare contraddittoriamente. Dobbiamo quindi ben distinguere tra due tipi di caos: quello postmoderno, che equivale alla confusione compiaciuta nel simulacro della presunta funzionalità tecnologica (gestell),e quello della classicità, cioè lo stato di disordine informe che precede il manifestarsi dell’ordine cosmico nell’alternarsi ciclico della complementarietà degli opposti. Oltre il confine dell’Essere c’è il Nulla, e il movimento verso questo limite è senza fine, ruota a spirale su se stesso. Niente e nessuno possono varcare questo confine verso il non essere, perché non esiste, non è. La condizione caotica dell’oggi, quindi,non è un determinismo, non ha il crisma dell’ineluttabile; è una possibilità, un’opportunità pre-ontologica. Sta tramontando l’estremo Occidente come contraffazione immanente del vivente, non certamente l’intangibile trascendenza del Vero e del Bello. La modernità ha ucciso l’eternità, la postmodernità vuole uccidere il tempo (fine della storia), ma il tempo non può venire meno, perché metafisicamente “immagine mobile dell’eternità”, capace di disporre nell’evento (ereignis) la sconfitta dei titani in favore degli Dei.

Note
1. Carl Gustav Jung, Jung parla. Interviste e incontri, Adelphi, 1995.
2. Francesco Germinario, Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della post-storia, Asterios, 2017.
3. Andrea Emo, Quaderno n. 122 (1951),in: Giovanni Sessa, La meraviglia del nulla, Bietti, 2014.

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