Coronavirus, il naufragio del modello liberale e “la quarta teoria politica”

Roma, 29 mar – Lo scoppio del coronavirus sta mettendo in serio pericolo non solo la salute della popolazione mondiale, ma anche l’economia dell’intero globo terracqueo. L’Italia è stata una delle prime nazioni a essere colpita da questa grave sindrome respiratoria che si sta propagando anche agli altri Stati. Se inizialmente le misure poste in essere sono apparse eccessive a taluni, ora si è giunti addirittura alla chiusura delle frontiere da parte di Germania, Austria, Slovenia e Svizzera, con buona pace del trattato di Schengen e di tutti gli illusi che pensavano di condividere questa crisi con l’Europa.

A ben vedere, mai nessuno avrebbe pensato che si sarebbe arrivati all’emanazione di provvedimenti draconiani di tal fatta per limitare il pericolo di contagio, provvedimenti che mettono in seria discussione la garanzia dei diritti fondamentali. È interessante rilevare come i decreti posti in essere dal governo italiano per fronteggiare questa situazione appaiano più simili a quelli della autoritaria Cina che a quelli adottati dai liberali paesi anglosassoni, e come si guardi giuridicamente a un modello orientale piuttosto che a quello occidentale. Nel frattempo l’Unione europea, da sempre sostenitrice dell’austerità economica e di quello che Giulio Sapelli definisce “ordoliberismo”, pare disponibile a fornire aiuti e flessibilità per fronteggiare questa pandemia, nonostante le dichiarazioni della neopresidente della Bce Christine Lagarde.

La quarta teoria politica

Da più parti comincia a circolare la voce che occorre riconsiderare la democrazia liberale, ormai incapace di fronteggiare le grandi sfide che incombono sul nuovo millennio. Uno dei volumi più critici nei confronti di questo sistema è La quarta teoria politica, saggio recentemente ristampato (Aspis Edizioni, 2019, 464 pagine, 28 euro) in cui Aleksandr Dugin getta le basi per un nuovo paradigma, capace di affrontare con fermezza la postmodernità.

Nel corso della sua disamina, il filosofo russo distingue tre differenti macro-teorie politiche – il liberalismo, il comunismo e il fascismo – che hanno combattuto tra loro nel Novecento, decretando la vittoria del primo modello rispetto agli altri due. Secondo Dugin, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica e dell’estensione dell’impero talassocratico americano a tutto il mondo, si è giunti alla globalizzazione e all’imposizione del pensiero unico mediante il tribunale inquisitorio del politicamente corretto, che processa in maniera sommaria chiunque non si adegui ai dettami imposti dalle élite al potere.

Posto dinanzi a tale situazione, Dugin ribalta gli schemi sulla cui base siamo abituati a ragionare, ritenendo razzista il modello occidentale e affermando che: «Senza alcun dubbio razzista è l’idea della globalizzazione unipolare. È fondata sull’idea che la storia e i valori della società occidentale, specialmente americana, siano leggi universali, e cerca artificialmente di creare una società globale fondata su quelli che sono in realtà valori localmente e storicamente determinati – la democrazia, il mercato, il parlamentarismo, il capitalismo, l’individualismo, i diritti umani e lo sviluppo tecnologico illimitato».  Lo studioso russo propone l’avvento di una quarta teoria politica che, in maniera sincretica: «si rivolge a tutti: ai tradizionalisti, ai socialisti, ai liberali, ai conservatori, alle persone aventi delle convinzioni e a quelle senza convinzioni. È un invito a pensare, e non un’imposizione di giudizi pronti o modelli. Il nostro obiettivo è destare nella società italiana l’interesse per la filosofia politica, per le idee e per la percezione acuta – veramente italiana – della realtà».

Che si possa realizzare o meno questo nuovo modello, certo è che quando avremo superato la pandemia da coronavirus e saremo usciti da questo incubo dovremmo riflettere sull’efficienza del liberalismo e valutare attentamente la tenuta di un modello che negli ultimi venti anni si è dimostrato indifferente ai bisogni del ceto medio e della parte meno abbiente della popolazione.