Russkaja Ideja. Teoria politica e nuove sintesi nella Russia del XXI secolo

TEORIA POLITICA E NUOVE SINTESI NELLA RUSSIA DEL XXI SECOLO

 

«Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore»

​                     Vladimir Putin

 

Il crollo del sistema sovietico ha posto la Russia di fronte a questioni importanti, diremmo esistenziali : che cosa è la Russia e qual è il suo destino? La ricerca di una nuova strategia e di unideale politico avrebbero dovuto fornire il materiale per consolidare quell’edificio istituzionale chegoverna su un territorio comprendente undici fusi orari, numerose etnie, altrettante lingue. Ilproblema della definizione di una identità russa era già evidente nello storico displuvio sullaterminologia ufficiale da adottare per denominare tutti i cittadini della Federazione. Non si parla piùdi russkie  («russi» in senso etnico), ma di rossijane , parola di difficile traduzione, che corrispondeall’incirca a «il popolo della Russia», proprio per includere nel termine la popolazione di etnia nonrussa – caucasici, per esempio.

All’inizio degli anni Novanta ci si era appena liberati del poteresovietico, l’unico, per dirla con Emmanuel Carrère, che «si arrogava il privilegio che san Tommasod’Aquino negava a Dio: fare che ciò che era stato non fosse stato»1. Una battuta molto diffusa all’era della  perestrojka  recitava che l’Unione Sovietica era l’unico paese al mondo con un passatoimprevedibile. Si trattava di stenderne, almeno su carta, il futuro. Negli anni di Boris El’cin ci provò il governo, perché la società russa era troppo occupata a sopravvivere al collasso economico per esprimere una propria tendenza ideologica. La teoria politica che dava forma alla nuova Russia, almeno a livello teorico, era la democrazia; per i russi, invece, a procurare al mercato delle idee una «ideologia russa» non era tanto la democrazia, quanto le dichiarazioni pubbliche dei politici. Un aneddoto racconta di un russo, presente nella capitale cecena Groznyj durante i bombardamenti dell’aviazione nel 1994, che alle domande dei giornalisti ebbe a rispondere: «Sono sopravvissuto ai nazisti, ora sono sopravvissuto ai democratici». Come poteva essere proprio la democrazia2 – che per alcuni russi si stava rivelando una «democratura»3, per usare il termine coniato da Predrag Matvejevic, e per altri «niente più che cleptocrazia e anarchia»4 – il nuovo ideale russo?

Nel vuoto venutosi a creare, El’cin cercò di recuperare l’eredità dimenticata dello zarismo: mentre i canali televisivi degli oligarchi filogovernativi trasmettevano sempre più spesso programmi sulla dinastia imperiale dei Romanov, il Presidente restituì al parlamento il nome di Duma, e ai colori panslavi della bandiera presidenziale sovrappose l’aquila bicipite. Nel 1996, il governò nominò un comitato di accademici, coordinati da un matematico nazionalista, allo scopo di teorizzare una sintesi politica adatta ai nuovi tempi. Tentativo vano: a distanza di un anno, il comitato venne sciolto senza aver ottenuto risultati soddisfacenti. Venne anche il turno di liberi intellettuali e di associazioni politiche di varia estrazione, i quali perlopiù giunsero a sostituire il marxismo con una teoria simile a quella di cui, in quel momento, si faceva portatore il politico di opposizione e capo del Partito comunista, Gennadij Zjuganov – un minestrone «di ideologia sovietica, nazionalismo russo e stravaganza pura e semplice»5.
 
È nota la dichiarazione di El’cin, più volte richiamata dagli analisti, con la quale l’allora Presidente ricordava che ogni fase della storia russa (monarchia, totalitarismo,  perestrojka ) ebbe una ideologia di stato: «Non diciamo se fosse buona o cattiva, però c’era. Ma noi democratici non ce l’abbiamo». Qualche anno dopo, commentando quelle parole, Aleksandr Javovlev (già consigliere di Gorbacëv e capo della Commissione per la riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche) polemizzava con El’cin, sottolineando che «non si rendeva neanche conto che qualsiasi idea uguale per tutti conduce inevitabilmente alla mentalità totalitaria»6; tuttavia, dato che a suo dire la mentalità russa era plasmata sul modello della Trinità, egli proponeva una triade di Libertà, Benessere, Giustizia, in realtà non meglio chiarita se non nel primo elemento. Libertà spirituale, economica, politica, che nella bocca di Javovlev suona come «sacra e intoccabile proprietà privata», a suo avviso soluzione per uscire dalla miseria. I russi la pensavano diversamente. Per loro il libero mercato e le privatizzazioni significavano uomini d’affari spuntati dal nulla, nuovi oligarchi dell’importazione, fiumi di vodka di produzione tedesca o belga, Snickers  americane, teatri e filarmoniche chiuse. In un recente reportage del Corriere della Sera, il regista premio Oscar Nikita Mikhalkov ha illustrato all’intervistatore, con parole poco diplomatiche, il sentimento di diffidenza ancor oggi diffuso: «Nulla di tutto ciò che avevate promesso ci è stato dato, solo jeans, McDonald's e merda»7. Dalla diffidenza all’inimicizia il passo è così breve che, stando a un sondaggio del dicembre 2012, i nemici della Russia sarebbero in primo luogo gli Stati Uniti, seguiti dai separatisti ceceni, dalla Nato e dalle «forze occidentali»8.
Il presidente Putin ha ereditato lo stallo di un grande paese senza un relativo ideale, riuscendo a governare con l’abilità politica degna di un grande statista. Nei suoi discorsi ha più volte avanzato la ferma convinzione che la Russia sia non semplicemente una nazione (accoglie una diversità etnica e religiosa senza pari) o uno stato (con tutte le complicazioni di una repubblica federale semipresidenziale), ma una civiltà distinta, determinata in molti aspetti dai valori del cristianesimo ortodosso9. A causa dell’eterogeneità della Federazione Russa, non si può fare a meno di una chiave di lettura e di risposta alla diversità di aspettative che muovono l’opinione pubblica, affinché le risposte della politica agli avvenimenti internazionali e alle esigenze popolari siano rapide e decise; la situazione caucasica, in questo senso, è paradigmatica10. In breve, è necessaria quella che a oriente chiamano una Russkaja Ideja, una “idea russa”. Nel marzo 2014, la celebre rivista statunitense Foreign Affairs, fucina di elaborazione teorica dell’atlantismo liberale, pubblicò un saggio dal titolo Putin’s Brain11, sostenendo che quella  Russkaja Ideja sia oggi fornita dalla declinazione contemporanea del pensiero eurasista (o eurasiatista), il cui esponente di spicco è Alexandr Dugin, filosofo, politologo e docente universitario, nato nel 1962 a Mosca da una famiglia di militari. In Italia, Dugin non è un nome noto al grande pubblico. Si è procurato la luce dei riflettori solo con qualche dichiarazione poco diplomatica sulla guerra civile ucraina, e l’opinione che ne hanno i pennivendoli italiani è riassumibile con la boutade  di Lucio Caracciolo sugli «esoterismi di alcuni fantasiosi geopolitici russi, come Aleksandr Dugin, con le loro pulsioni furiosamente antioccidentali»12 – e qui, per quanto il direttore di Limes sia un analista colto e raffinato, traspare una scarsa conoscenza del pensiero del filosofo russo. In Francia, per esempio, Dugin è noto per l’amicizia con Alain de Benoist, e l’opinione che si ha di lui è più lucida e onesta in confronto agli «esoterismi» sopracitati.
Carrère ne ha fatto una descrizione che, pur romanzata e dedicata al Dugin dei primi anni Novanta, è veritiera e rende onore al personaggio: 
Parla quindici lingue, ha letto tutto, sa bere e spassarsela, è una montagna di scienza e di fascino. […] Ben lungi dal contrapporre fascismo e comunismo, Dugin venera entrambi in egual misura, e accoglie alla rinfusa nel suo pantheon Lenin, Mussolini, Hitler, Leni Riefenstahl, Majakovskij, Julius Evola, Jung, Mishima, Groddeck, Jünger, Meister Eckhart, Andreas Baader, Wagner, Lao-tzu, Che Guevara, Sri Aurobindo, Rosa Luxemburg, Georges Dumézil e Guy Debord.13
Nonostante sia evidente la svolta eurasista della politica russa, è da constatare quanto l’eurasismo di Dugin venga sfruttato, in Occidente, come «una sorta di spauracchio che viene spesso agitato, sopravvalutando in effetti l’importanza di questo orientamento nelle sfere decisionali russe, che se ne servono al pari di altri elementi ideologici»14. È infatti perlomeno azzardato considerare Dugin l’ideologo di Putin o, come ha scritto Foreign Affairs, il suo cervello. Il filosofo medesimo rifiuta questa descrizione, poiché non ha mai lesinato critiche verso il Presidente, a cui «manca una visione del mondo coerente»15. D’altra parte, gli analisti statunitensi hanno costantemente monitorato i rapporti tra il mondo eurasista e le scelte di governo di Putin. Come raccontato dallo stesso Dugin, all’Istituto Hopkins (prestigiosa università nordamericana) gli fu mostrato un dossier di corrispondenze tra le sue prese di posizione negli anni Novanta e le più recenti dichiarazioni del Presidente russo, con una notevole mutuazione di idee16. Nel corso degli anni, anche in seguito alla creazione di circoli ufficiali, club politici, movimenti e gruppi di lavoro sotto la sua egida, Aleksandr Dugin ha affinato il suo pensiero attraverso la concettualizzazione e la teorizzazione di un sistema politico in grado di farsi carico della
Russkaja Ideja , di una originale Weltanschauung  russa. «L’eurasiatismo si considera fondamentalmente come la nuova forma di questa millenaria missione russa»17. L’elaborazione sistematica di questa consapevolezza è codificata nella Quarta Teoria Politica18 (d’ora in avanti 4TP) – a cui hanno collaborato numerosi intellettuali – ed esposta nell’omonimo libro, summa del pensiero filosofico e geopolitico di Aleksandr Dugin. Passo primo della sua trattazione è porre in dubbio la teoria della «fine delle ideologie»19, ossia cercare una risposta alla domanda: siamo in un’epoca post-ideologica? Il Novecento è stato il secolo delle ideologie. Prima di esso, ad avere un ruolo fondamentale nella vita dei popoli erano la religione, le dinastie, le classi, gli stati nazionali; il XX secolo, invece, ha visto il culmine di importanza delle ideologie, prodotto e spirito di una nuova epoca, le quali si sono rese manifeste in diversi modi e con diversi simboli. Dugin ne classifica tre essenziali: il liberalismo, di destra o sinistra; il comunismo, marxismo e socialismo compresi; il fascismo, come contenitore del nazionalsocialismo e delle numerose flessioni della Terza Via (il sindacalismo nazionale franchista, il giustizialismo peronista, il regime di Salazar, ecc.). L’ordine di nascita delle tre ideologie è inverso all’ordine della loro scomparsa. Il fascismo, sorto per ultimo, è stato il primo a morire – non di morte naturale, sottolinea Dugin, ma vittima di un «omicidio» o di un «suicidio». Il comunismo, a differenza del fascismo, non è scomparso a causa di una sconfitta militare. La fine della terza teoria politica aveva lasciato il terreno libero per lo scontro tra le altre due (guerra fredda), conclusosi nel 1991, data che segna il declino globale del comunismo e la vittoria dell’ultima ideologia rimasta: siamo alle porte dell’epoca del liberalismo. Non si tratterebbe dunque della fine delle ideologie, ma del trionfo assoluto e globale della prima teoria politica: l’individuo diventa
soggetto normativo libero dalla cornice della società. È a questo punto che il liberalismo, liberatosi delle due ideologie avversarie, ha la sua fine. Dugin ci pone di fronte a un paradosso: il suo trionfo coincide con la sua morte.
I valori del razionalismo, lo scientismo e il positivismo, o le grandi narrazioni, vengono riconosciuti come “velate forme di politiche repressive, totalitarie”, e criticate. Allo stesso tempo, ciò è accompagnato dalla glorificazione della libertà totale e dell’indipendenza dell’individuo da ogni tipo di limite, incuse la ragione, la moralità, l’identità (sociale, etnica o anche di genere), la disciplina, e così via. Questa è la condizione della postmodernità. 20
È così che da ideologia, da prima teoria politica, il liberalismo diventa l’unica prassi post-politica, un post-liberalismo. Manca del tutto una dimensione politica, dacché sono state portate a termine quelle che Carl Schmitt, in un discorso dell’ottobre 1929 al Congresso della Federazione internazionale della cultura, chiamava neutralizzazioni e spoliticizzazioni21. Il mondo diventa un mercato globale, gli stati e le nazioni si disgregano in un melting pot. L’economia, che rimpiazza la dimensione del politico, diventa «un destino». Se il fascismo viene sconfitto nella sua gioventù e il comunismo muore decrepito nell’anzianità, il liberalismo rinasce, contraffatto, come post-liberalismo nella forma di «società del mercato globale». In ogni caso, assicura Dugin, nessuna delle tre teorie politiche è in grado di portare il fardello delle nuove sfide e di rispondere ai cambiamenti globali. Da questa constatazione sorge la necessità di una Quarta Teoria Politica, da concepire come dissenso contro la globalizzazione, contro la postmodernità, contro la «fine della storia», dunque come resistenza allo statu quo. La dicotomia politica destra-sinistra ha esaurito, per Dugin, il proprio potenziale semantico. Se nei decenni passati corrispondeva a differenti collocazioni politiche in un arco ideologico, ora «è impossibile determinare dove la destra e la sinistra siano collocate in relazione al postliberalismo». Affinché i fatti politici siano meglio comprensibili, è necessario aggiornare la nostra topografia, la quale dovrebbe prevedere, piuttosto che uno scontro fra destra e sinistra, una tensione fra due nuove posizioni valide globalmente: la conformità al postliberalismo e il dissenso verso di esso – o, per dirla con de Benoist, il centro contro la periferia.23
Il secondo punto di indagine della 4TP riguarda l’eredità della modernità, ossia delle tre grandi teorie politiche. Secondo Dugin, la seconda e la terza teoria politica si pongono come competitrici per la migliore espressione dello spirito della modernità; tuttavia entrambe falliscono in tale sforzo. Devono piuttosto essere ripensate, selezionandone le idee che hanno valore di per sé, in quanto come sistema completo ci sarebbero del tutto inutili; hanno infatti elementi che, alla prova della storia, sono rimasti periferici e marginali (la «metafisica delle macerie», la «letteratura della crisi», la Rivoluzione Conservatrice, che per il pensatore russo è una Quarta Teoria Politica avant la lettre). Si tratta, insomma, di sviluppare una critica che sappia vedere Marx da destra e che sappia leggere Evola da sinistra. L’apice della modernità coincide la fine del sacro, la «morte di Dio» (Friedrich Nietzsche) e il «disincanto del mondo» (Max Weber), ma il postmoderno non si pone come nemico della religione, va oltre: ne è indifferente. Contro questo lassismo del pensiero, la 4TP propone una difesa degli ideali e dei valori della Tradizione24. Di fronte allo scenario di un mondo di stravaganti, degenerati e pagliacci, «niente può sembrare ‘troppo arcaico’, nemmeno il popolo della Tradizione che ignora gli imperativi della vita moderna». Come in altri punti del libro, Dugin non approfondisce la questione, quasi a sottolineare che non vuole sviluppare una dottrina sistematica, ma vuole porre un invito alla riflessione. Nei suoi termini, la postmodernità viene a corrispondere al regno dell’Anticristo, al Dajjal dei musulmani, all’Erev Rav degli ebrei, al Kali Yuga degli induisti. La risposta degli aderenti alla 4TP è una dichiarazione di teologia politica: «Noi
crediamo in Dio, ma ignoriamo quelli che parlano della Sua morte tanto quanto ignoriamo le parole
di un pazzo»25.
La definizione di un «soggetto storico» è la base fondamentale di ogni ideologia politica, e ne
determina la struttura. Il soggetto del liberalismo, si è detto sopra, è l’individuo (libero da ogni
appartenenza e identità collettiva); quello del comunismo è la classe; il fascismo ha infine come
soggetto lo stato o la razza, rispettivamente nella declinazione italiana (mussoliniana) e tedesca
(hitleriana). Qual è, dunque, il soggetto della 4TP? Dugin formula diverse ipotesi. La prima prevede
un composto dei soggetti delle teorie precedenti, ossia non l’individuo, la classe, lo stato, l’etnia o la
nazione prese per sé, ma una combinazione di tutti gli elementi. Nella seconda ipotesi, partendo da
Edmund Husserl, Fernand Braudel e Peter Berger, Dugin apre la prospettiva di una
desecolarizzazione (la religione come alleata della politica) o di un recupero della dottrina
schmittiana del decisionismo. Altra ipotesi è quella di una sociologia dell’immaginazione. Questa
facoltà forma il contenuto dell’esistenza umana in base alle sue strutture interne indipendenti, e
viene interpretata come un attore autonomo nella sfera politica, in quanto necessaria per progettare
– si pensi alle istanze delle proteste del 1968, che riconoscevano l’importanza politica della facoltà
dell’immaginazione con lo slogan «immaginazione al potere». L’ultima ipotesi, quella a cui Dugin
riserva più attenzione, candida il Dasein heideggeriano26 come soggetto della 4TP. Non viene
chiarito il concetto di «esserci» (come lo stesso Heidegger aveva solo abbozzato una analitica
esistenziale), ma ci si limita ad affermare che esso può costruire un modello complesso e olistico
per condurre una nuova analisi della politica.
Quest’ultimo è l’esserci in quanto essere anzitutto dato, che è hic et nunc, che c’è ogni volta che
viene posto il problema. L’uomo, in particolare, è l’unico ente in grado di comprendere l’essere. Il
“ci” di esserci richiama l’esperienza umana dell’essere.
Recuperando gli studi di Gregory Bateson (studioso di vari campi tra cui l’antropologia, la
sociologia, la linguistica e la cibernetica, nonché uno dei principali protagonisti dell’epistemologia
delle scienze umane del XX secolo), Dugin formula una critica dei processi monotonici, ovvero
dell’idea (coeva all’ideologia del progresso) di una crescita e di uno sviluppo costanti, legati
all’aumento di uno specifico indicatore e privi di effetti collaterali. Monotonici sono quei processi
che si muovono verso una sola direzione, e per Bateson essi non esistono né in biologia, né al
livello delle macchine, né nella società. «Processi monotonici, come l’incremento della
popolazione, in molti casi conducono alla guerra, la quale allora torna a ridurre la popolazione
stessa»; e ancora: «nella società attuale vediamo livelli di progresso tecnologico senza precedenti,
insieme a un incredibile degrado morale» . D’altra parte anche il sociologo 27 francese Marcel Mauss,
maestro di Claude Lévi-Strauss, li ha esposti a critica, sottolineando come le società tradizionali,
invece, dedichino maggiore attenzione ai rituali di distruzione. L’incremento in un’area corrisponde
al decremento in un’altra (sia in natura che in tecnologia e società), e ciò basta, secondo Dugin, per
respingere il paradigma del progresso e porre alla base della 4TP la ciclicità dei fenomeni – così
come Lev Gumilev, Nikolai Danilevsky, Oswald Spengler, Carl Schmitt, Ernst Jünger, e Arnold
Toynbee l’hanno sostenuta – e rifiutare l’idea dell’irreversibilità del tempo. Ovviamente, sebbene la
4TP non ne faccia valori assoluti, essa non disconosce il progresso tecnologico e la
modernizzazione.
Peraltro, l’eurasismo pone se stesso non come una filosofia politica, ma come episteme. Ha rapporti
soltanto con ideologie conservatrici (eccetto il conservatorismo liberale), e condivide caratteristiche
con il conservatorismo tradizionalista e con la Rivoluzione Conservatrice (nella quale fa rientrare la
sinistra eurasista). Esso considera la modernità come un fenomeno peculiare della civiltà
occidentale, rifiutandone la validità universale, dacché «non c’è un singolo processo storico, ma ogni nazione ne ha uno proprio, che si sviluppa in differenti ritmi e allo stesso tempo in differenti
direzioni» . L’eurasismo, afferma Dugin, è «pluralità gnoseologica»: l’unitaria 28 episteme della
modernità si oppone alla pluralità delle civiltà, ognuna fondata su una propria episteme. Da qui si
passa alle considerazioni propriamente geopolitiche. La 4TP oppone all’unipolarismo un
multipolarismo basato sulle differenti civiltà (Dugin ne identifica otto), corrispondenti
territorialmente ai «grandi spazi»29. Nell’accezione che ne dà Dugin, il Großraum è fondato su un
comune sistema di valori e una «consanguineità storica» in grado di tenere insieme una moltitudine
di governi differenti in una «comunità di destino». I fattori di integrazione possono essere
molteplici, ma gli esempi più chiari sono la religione, l’etnia, la forma culturale, il tipo
sociopolitico, la posizione geografica. L’esaurirsi del paradigma dello stato nazionale, ormai
obsoleto, segna il passaggio ai grandi spazi, di cui l’Unione europea è l’espressione pratica a noi più
vicina: la transizione da governi nazionali a un organismo politico sovranazionale, il cui collante è
la comune civiltà (europea, nel nostro caso). Sul caso Ue, Dugin afferma dal punto di vista
geopolitico ciò che Hayek aveva negato dal punto di vista culturale30, ossia l’esistenza di due
identità europee: una atlantica, il cui «quartier generale» è la Gran Bretagna, e che si identifica con
un Occidente che comprende anche il Nord America; una continentale, determinata dall’asse
franco-tedesco, che spinge affinché l’Europa giochi un ruolo da attore indipendente. Quanto alla
Russia, essa appartiene alla grande civiltà slavo-ortodossa, e avrebbe il suo Großraum nell’Eurasia,
lo spazio che va dall’Intermarium ai confini orientali dalla Federazione Russa31.
Riguardo alla critica di Dugin al liberalismo, essa non è affatto originale. A suo parere, ciò che
l’uomo è non deriva da se medesimo in quanto individuo, ma dalla politica, il dispositivo di violenza e legittimazione del potere, che definisce l’uomo. È però d’accordo con i liberali quando
afferma che la politica è violenza, e lo stato il monopolista della coercizione . 32 Per il resto, egli si
limita alla consuetudinaria distinzione di libertà negativa (assenza di costrizione da) e libertà
positiva (partecipazione a); le altre criticità evidenziate (distruzione delle identità, liberazione
dell’individuo da ogni cornice comunitaria, omologazione, ecc.) non sono sostanziali al liberalismo,
e a questo proposito basti citare le opere di filosofia morale di Adam Smith. Altrettanto erroneo è
legare il liberalismo al darwinismo sociale spenceriano e al positivismo, che furono più tardi visti
dai liberali come sostrato, insieme allo storicismo, del totalitarismo. Una critica sistematica alla
prima delle ideologie non può essere formulata se non tenendone in considerazione le varie correnti
(la Scuola Austriaca di economia e la Scuola di Chicago in particolare) e affrontando le questioni
del dilatarsi del quadro delle aspettative individuali e sociali, della diseguale distribuzione della
conoscenza, della gestione dell’incertezza, della scarsità dei beni, dei diritti di proprietà come argine
al pericolo costante della tirannide – questi sono i veri punti di partenza del liberalismo
contemporaneo. Sono anche fuori luogo, nella critica di Dugin al liberalismo, gli insistenti rimandi
a Fukuyama, quasi ne fosse un importante teorico, mentre sono rari i riferimenti a Friedrich von
Hayek e a Ludwig von Mises, per richiamare due nomi di cui si dovrebbe assolutamente tener
conto.
Più interessante, nell’intera teorizzazione della 4TP, è la pars philosophica, a cui dedicheremo solo
qualche riga, poiché un esame approfondito richiederebbe uno studio a parte. Prendendo le mosse
da Heidegger, Dugin abbozza una ontologia del futuro, parlando di tre estasi del tempo e dei relativi
argomenti ontologici: l’immediato (c’è, non c’è) è relativo al presente; il documentario (c’era, non
c’era) al passato; il probabilistico (ci sarà, non ci sarà) è in relazione al futuro. Se “c’è” è il più
32 L'uso del termine coercizione, caro ad anarchici, liberali e libertari, non è loro prerogativa. È noto
l’uso che ne ha fatto M. Weber, Economia e Società, trad. it. a cura di P. Rossi, Edizioni di
Comunità, Milano, 1968, I, p.31: «Un ordinamento deve essere chiamato [...] diritto, quando la sua
validità è garantita dall'esterno, mediante la possibilità di una coercizione (fisica o psichica) da
parte dell'agire, diretto ad ottenerne l'osservanza o a punire l'infrazione».
evidente, “ci sarà” è il più dubbio. A differenza di presente e passato, non si può sapere niente con
certezza riguardo al futuro, perché «manca d’essere». Da qui, Dugin propone un’indagine
fenomenologica del tempo, raccogliendo l’invito di Husserl a studiare il tempo attraverso la musica:
quest’ultima è qualcosa di diverso dalla singola nota che sento ora, nel presente, anzi è formata
anche dalle note passate che svaniscono una ad una e «il cui risuonare persiste nella mia coscienza e
dà alla musica il suo senso estetico. […] Il passato è presente nel presente». Ecco la chiave
metodologica per la comprensione della storia, «consapevolezza della presenza del passato nel
presente»: gli eventi passati continuano a suonare nel presente – Clio e Polimnia, rispettivamente
muse della storia e della musica, sono sorelle. A tal guisa va compreso il futuro, risonanza del
presente, in quanto «noi viviamo il futuro già ora, mentre suoniamo le note della melodia della
vita». Scrive il filosofo russo:
La consapevolezza del tempo è necessaria per nascondere il presente, che è l’esperienza traumatica della natura
autoreferenziale della pura coscienza. L’intenzionalità e i giudizi logici sono tutti radicati in questa evasione dal dolore
della mancanza per cui la coscienza diviene consapevole di se stessa. […] Cosa è davvero importante in questa
interpretazione della morfologia del tempo? L’idea che questo tempo precede l’oggetto, e che nella costruzione del
tempo dovremmo cercare una profondità interna della coscienza, piuttosto che una coscienza radicata nei fenomeni
esterni costituiti dal soggettivo processo dell’autocoscienza traumatica. Il mondo intorno a noi diviene ciò che è
l’azione fondamentale della presenza compiuta dalla mente. Quando la mente dorme, la realtà perde il senso
dell’esistenza presente. È pienamente immersa in un sogno continuo. Il mondo è creato dal tempo, e il tempo, a sua volta, è la manifestazione della soggettività autoconsapevole, una intrasoggettività.33
Passando dall’uomo alla società, dalla antropolgia alla sociologia, Dugin afferma che il futuro è una
funzione sociale e non immanente alla natura dell’oggetto, il quale d’altra parte non concepisce il
futuro (si pensi alla terra, gli animali, alle macchine). Per lui, solo ciò che è umano e sociale prende
parte al futuro: senza autocoscienza non v’è il tempo. Il tempo è altresì ciò che, dall’interno, ci
rende ciò che siamo, «è la massima identità dell’uomo». Constatato ciò, Dugin elenca quattro tipi di
concezioni del tempo: circolare, basata su un eterno ritorno dell’uguale; tradizionale, ossia
regressiva, nella quale il futuro e il presente sono costruiti sul modello del passato; messianica, che
vive nell’attesa del futuro; infine materiale, concezione basata sul mondo fisico e sulla morte del
soggetto. Ogni società ha una storia differente, in quanto la coscienza costruisce diverse forme di
tempo e loro combinazioni. Tornando alla musica, diremmo che diversi sono i pezzi, i musicisti, gli
strumenti, i compositori, le annotazioni, i generi musicali. L’umanità non può avere un solo futuro
condiviso per tutte le società, perché diverse sono le costruzioni della storia e del tempo. Allora qual
è il centro della storia? Ogni popolo, ogni cultura, ogni società hanno una propria storia, il cui perno
è geografico; essi possono interagire, incrociarsi, conoscersi, ma al senso della storia e del tempo
ciò non è permesso se non con il dominio di una società su un’altra – ecco ciò che la 4TP vuole
evitare, ecco il vero significato del multipolarismo. La società occidentale è guastata dalla pretesa di
porsi al di sopra di ogni altra società, di considerarsi come universalmente valida, in ordine al suo
passato razzista e colonialista. Dugin ricorda che nel Novecento strutturalisti, antropologi,
sociologi, fenomenologi, linguisti ed esistenzialisti indicarono questo vizio dell’Occidente come
paranoica imposizione della propria identità all’altro; sebbene si ritenga universale, l’Occidente è
un fenomeno storico locale, come ogni altra società. L’idea della fine della storia è la conclusione
logica della pretesa universalistica occidentale, come la globalizzazione è la «morte del tempo». Il
rischio opposto è quello messo in luce da Samuel Huntington: lo scontro di civiltà34. Da buon
realista politico, il geopolitico russo risponde che la storia conosce la guerra come la pace; entrambe
si susseguiranno sempre, perché servono per rilasciare la tensione delle società nel presente. Una
pace totale è tanto dannosa quanto una guerra totale.
Tralasciando le altre parti della 4TP (la nuova antropologia politica, l’Angelopoli, la Quarta Pratica
Politica, la riflessione sul gender, ecc.), volgiamo infine la nostra attenzione sul concetto di Impero,
il cui legame con la Russkaja Ideja è rivendicato anche da Eduard Limonov e dai
nazionalbolscevichi russi. Impero non è imperialismo, ossia non è la volontà di uno stato di
estendere il dominio oltre i confini originari. La nozione di Impero si avvicina, piuttosto, a quella di
Großraum (Schmitt) o di governo-mondo (Savickij), che in breve indicano una parte concreta dello
spazio mondiale in quanto civiltà distinta – de Benoist parlerebbe di un principio che trascende i
singoli stati che lo compongono, contrapposto allo stato nazionale 35. Impero è uno stato
sovranazionale che ha una linea comune nella dimensione fondamentale del politico (la politica
estera e la difesa), mentre lascia spazi di autonomie regionali. Scrive Dugin:
L’Impero rappresenta una specie di organismo politico-territoriale che combina un centralismo strettamente strategico (unica linea di potere verticale, un modello centralizzato di amministrazione retto da forze armate, un codice di leggi civili valido per tutti, un unico sistema di riscossione di tasse, un sistema di comunicazioni unificato e così via) con l’ampia autonomia delle istituzioni sociopolitiche regionali appartenenti al suo ambito (elementi di diritti etnicoconfessionali a livello locale, dalla democrazia tribale ai principati o anche ai regni centralizzati).36
L’opinione secondo cui l’Impero presuppone necessariamente un imperatore al governo è, se non
ingenua, quantomeno errata. La caratteristica fondamentale dell’Impero, insieme alla presenza del
grande-spazio, è che esso è investito di una missione; quest’ultima si può realizzare nella forma
civile (Impero romano, Impero di Gengis Khan), culturale (Impero Persiano, Celeste Impero),
religiosa (Califfato islamico, Impero moscovita, Impero bizantino, Impero austro-ungarico) e infine
ideologica (Unione Sovietica, Stati Uniti d’America). In questo senso, gli ultimi Imperi rimasti sono
l’Ue, che Dugin chiama «Impero incerto», e gli Usa. Perciò la Russia deve pensare ora ad agire a
guisa d’Impero, sia nel suo Großraum naturale (lo spazio eurasiatico, la Comunità di stati
indipendenti, l’Unione economica eurasiatica), sia nei rapporti con le grandi potenze. Solo nel farsi Impero, seguendo la Großraumtheorie di Schmitt, e accettando la sfida della Quarta Teoria Politica,
la Russia può porre in pratica l’unica alternativa realistica all’unipolarismo talassocratico,
promuovendo un fronte d’opposizione contro l’inganno del dirittoumanismo e dell’universalismo
occidentale . La dimensione spaziale, nella filosofia e nella geopolitica 37 dei russi, è fondamentale;
ecco perché l’idea russa non si potrà avere senza una riflessione sul concetto di Impero. A tale
proposito, si è parlato a ragione di «ipertopia» come elemento imprescindibile dell’identità russa38.
In altre parole, la dimensione spaziale alimenta il senso di eccezionalità, di unicità insito nell’anima
russa, determinando quell’escatologia sui generis che le è caratteristica (giova ricordare l’idea di
Mosca come terza Roma, ossia come definitiva translatio imperii). Sia la 4TP che il
nazionalbolscevismo hanno compreso l’ipertopia russa e la lezione di Nikolaj Vasil'evič Ustrjalov,
il quale in un articolo del 1921 scriveva: «Si sbaglia di grosso chi ritiene il territorio un elemento
“morto” dello Stato, indifferente alla sua anima. Io sono pronto ad affermare piuttosto il contrario:
proprio il territorio è la parte più essenziale e preziosa dell’anima statale, nonostante il suo
apparente carattere “grossolanamente fisico”»39.
La dialettica della Russkaja Ideja è antinomica, gioca tra idealismo e Realpolitik. Essa non può
esistere senza un nemico, così come la Russia non può esistere se non in quanto mosaico.
 
 
1 E. Carrère, Limonov , Adelphi, Milano, 2012, p.181. 
2 P. Bushkovitch, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin  , Einaudi, Torino, 2013, p.528.
 
3  A.N. Jakovlev, La Russia, il vortice della memoria. Da Stolypin a Putin , Spirali, Milano, 2000, p. 554. P.
4 Bushkovitch, cit. , p.529.
5 Ivi , p.526.
 
6 A.N. Jakovlev, cit. , p.549.
 
7  P. Valentino, “Nella Russia di santi e zar. «L’Europa ci ha traditi»”, Corriere della Sera , 4 febbraio 7
2015. S. Markedonov, «The North Caucasus: the Value and Costs for Russia», Russia in Global Affairs 
 
8 27 dicembre 2013.
 
9 Acting President Vladimir Putin sent Christmas greetings to Orthodox Christians in Russia , 6 gennaio 2000, in http://eng.kremlin.ru/news/13957.
10 Cfr. V. Avioutskii, «La Russia che pensa se stessa», Limes , 1/2004,
«Progetto Jihd» , pp. 279-288.
11 A. Barbashin e H. Thoburn, «Putin’s Brain. Alexander Dugin and the Philosophy Behind Putin’s "Invasion of Crimea", Foreign Affairs , 31 marzo 2014, in http://www.foreignaffairs.com/articles/ 141080/anton-barbashin-and-hannah- thoburn/putins-brain.
12 L. Caracciolo, «La fine del Caucaso», Limes  , 2/2014, «Grandi giochi nel Caucaso» , p.21
 
13 E. Carrère, cit. , pp.255-256.
 
14  A. Ferrari, «Crimea: una svolta per la politica estera russa?», in Oltre la Crimea. Russia contro Europa?, ISPI, Milano, 2014, p.8.
 
15A. de Benoist, A. Dugin, «Che cos’è l’eurasiatismo? Una conversazione con Aleksandr Dugin», in Idd., Eurasia. Vladimir Putin e la Grande Politica , Controcorrente, Napoli, 2014, p.58. 
 
16 Ivi , p.70.
 
17 Ivi , p.69.
 
18  I movimenti e i circoli politici che fanno riferimento alla Quarta Teoria Politica sono numerosi e
presenti anche fuori dalla Russia. Uno dei siti di riferimento di questa galassia è www.4pt.su
 
19  Cfr. D. Bell, The End of Ideology  , Harvard University Press, Cambridge, 1960.
 
20  A. Dugin, The Fourth Political Theory  , Arktos, London, 2012, p.18.
 
21  Cfr. C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni  , in C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’ , Il Mulino, Bologna, 1972.
 
22 A. Dugin, cit. , p.21.
 
23 Alain de Benoist ha rifiutato, dagli anni Novanta, la dicotomia destra-sinistra, in luogo dei termini centro e periferia. Per l’intellettuale francese, il centro corrisponde alle varie fazioni dell’ideologia dominante e ai movimenti o partiti a loro collaterali, mentre la periferia è l’insieme delle forze minoritarie che si oppongono a quella egemone. Possiamo leggere l’invito di de Benoist come il bisogno di un fronte che unisca le forze radicali di destra e sinistra contro quelle centriste.
 
24 Aleksandr Dugin utilizza il termine Tradizione nello stesso senso che gli era stato dato da René Guénon e Julius Evola, ossia come un insieme di principi metafisici che occupa il centro di ogni autentica religione, e che è condiviso nonostante la differenza formale dei culti e delle pratiche religiose.
 
25 A. Dugin, cit., pp.26-27.
26 Dasein (esserci) è usato da Heidegger, in Essere e tempo, come sinonimo di uomo.
27 A. Dugin, cit., p.61.
28 Ivi, p.99.
29 Si parla di “grande-spazio” (Großraum) quando uno stato è talmente forte da porsi come attore
regionale primo e fondamentale, in grado di aggregare a sé entità politiche organizzate,
promuovendo la propria egemonia come principio nomotetico.
30 Cfr. F.A. von Hayek, The road to Serfdom, University of Chicago Press, Chicago, 1944.
31 L’Intermarium è la linea immaginaria che, tagliando l’Ucraina e i paesi baltici, congiunge mar
Baltico e mar Nero.
 
33 A. Dugin, 33 cit., pp.158-159.
 
34 Cfr. S.P. Huntington, «The Clash of Civilization?», in Foreign Affairs, 72 (3), estate 1993, pp.
22-49.
 
35 A. de Benoist, Il mito dell’impero, in A. de Benoist, L’impero interiore, Ponte alle Grazie, Firenze,
1995, pp. 115-188.
36 A. Dugin, «Il progetto Impero», in Eurasia, 1/2013, «Imperialismo e Impero», p.52.
37 Questo inganno manifesto, tipico delle potenze talassocratiche, fu ripetutamente messo in luce
da Carl Schmitt (cfr. Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Verlag von Philipp.
Reclam, Leipzig,1942; Id., Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum,
Greven Verlag, Köln, 1950).
38 Cfr. A. Roccucci, «Russia, l’utopia con i piedi per terra», Limes, 8/2013, «Utopie del tempo
nostro», pp.147-159.
39 Il brano è citato Ivi, p.149.