La crisi del “vitello d’oro”

La crisi del “vitello d’oro”

Alla radice dell’attuale crisi finanziaria non vi è un guasto tecnico della regolazione macroeconomica, ma la contraddizione fondamentale insita nel sistema finanziario globale.

Le basi della “nuova economia”

Questo sistema si caratterizza per aver raggiunto un distacco critico fra la massa finanziaria (includendo varie forme di titoli in valuta, di future, di derivati, ecc.) e i principî fondamentali della classica economia di mercato (equilibrio fra domanda e offerta o regole di mercato). L’economia attuale (“nuova economia”) è basata sull’assioma della “crescita infinita della macroeconomia”, secondo cui l’importo combinato della capitalizzazione delle imprese e del sistema dei titoli in valuta, delle opzioni e dei derivati ha raggiunto tale livello, allorquando la copertura reale dei prodotti dell’economia viene ad assumere dimensioni infinitamente piccole.

L’abnorme bolla finanziaria ha, di per sé, oscurato del tutto il settore reale. Fino al 2001 i segmenti indipendenti di questo settore reale – il campo delle alte tecnologie, dopo il 2001 – i prezzi dei beni immobili e dei mezzi energetici, e nel 2007 – dei prodotti alimentari – si sono trasformati in punti di connessione con il sistema finanziario ed a causa di questo, tali prezzi si sono staccati dal mercato delle regole (e più volte accresciuti).

La logica della “crescita infinita” è stata sostenuta dagli economisti monetaristi liberali sulla base di costruzioni matematiche (nella fattispecie da due autori – R. Merton e M. Sholes – cui è stato attribuito il premio Nobel per il fatto di aver dimostrato “scientificamente” che ciò che oggi sta accadendo nei mercati non può accadere in teoria). In pratica questa sperequazione fra la “nuova economia” finanziaria e l’economia reale ha dei limiti concreti.

La crisi dei mutui del settembre 2008 negli USA e la devastazione degli istituti finanziari più importanti si sono trasformate in una diretta smentita di quei modelli statistici economici, millantati dall’economia liberale globale, che prospettavano uno “sviluppo accelerato infinito”.
 

Paradigma filosofico della “nuova economia”

Da un punto di vista filosofico ed ideologico la “nuova economia” è basata sulla convinzione dell’autonomia del settore finanziario. L’origine di questo concetto risiede nell’ontologia (quasi religiosa) dell’autosufficienza del capitale. A partire dallo sviluppo del concetto di interesse bancario nell’Europa del Rinascimento e dei Tempi Moderni, il fattore finanziario si è sviluppato costantemente convertendosi dal mezzo di sussistenza economica al classico paradigma “merce-denaro-merce”, alla realtà indipendente e dominante, all’Alfa e Omega dell’intera attività economica e quindi alla spartizione della vita socio-politica e culturale.

Se da un punto di vista tecnico gli economisti, critici nei confronti della “nuova economia”, sono propensi a vedere in essa una “cospirazione” o un “immane inganno” su scala mondiale, allora da un punto di vista sociologico, questo può essere definito come una forma sui generis di una nuova religione, la religione del “vitello d’oro”. Il senso di questa religione monetarista risiede nella fede nella solidità e nell’efficacia degli istituti finanziari, confermata dalla possibilità pratica di verificare la sua adeguatezza in qualsiasi istante. Ciascuno può comprare le azioni delle aziende in crescita o altri titoli in valuta, compreso un sofisticato sistema di strumenti derivati e, dopo qualche tempo, venderli al prezzo più elevato. Nell’economia finanziaria il denaro si riproduce quasi per magia. Merci, richieste, proposte e lavoro, sono tutti attributi della vecchia economia che sono stati messi fra parentesi.

La fede nel mercato e i sacerdoti della macroeconomia e del globalismo hanno incoraggiato tutti a “provare da soli”. E milioni di speculatori si sono convinti dell’escamotage – funziona! Così si è realizzata la conferma empirica e definitiva dell’efficacia e dell’efficienza della religione del mercato.

Parallelamente a questi processi, a partire della seconda metà del XX secolo, nella società occidentale si è sviluppata la virtualizzazione della sfera sociale, economica, culturale e delle informazioni. L’informatizzazione e lo sviluppo di Internet hanno permesso il trasferimento dell’interesse di enormi porzioni di umanità verso lo spazio virtuale. La connessione alla rete è di per sé già un dato di fatto che offre all’uomo tutto: senso di prestigio, accesso all’informazione, nonché possibilità di un ampio dibattito “democratico” su qualsivoglia tematica all’interno di forum e blog (senza alcun tipo di gerarchia sociale), oltre a possibilità d’accesso a vaste e vantaggiose conoscenze, ed infine tempo rivolto al lavoro e al denaro.

La “nuova economia”, pertanto, non è un fenomeno isolato, ma un parametro della transizione da una società reale verso una virtuale.

Virtuale non significa irreale o fittizio. Lo spazio virtuale è lo spazio costruito artificialmente, pressoché privo di impedimenti alla circolazione delle informazioni. Di conseguenza in esso c’è tutto quello che si trova nella realtà, ma soltanto in forma schematica (ovvero in forma di simulacro).

Il senso della società delle informazioni o della società post-industriale (che approssimativamente designano la stessa cosa) risiede nel fatto che l’uomo e l’umanità si sono gradualmente trasferiti nella dimensione virtuale. Il film “Matrix” ci offre un’immagine fantastica, ma nel contempo realistica di ciò verso cui dovevano condurre questi processi. E all’interno di questo passaggio collettivo verso il modello post-industriale, la “nuova economia” ha costituito il fondamento materiale di questa religione globale.

La virtualizzazione della società deve essere deliberatamente globale, in modo da non permettere a nessuno di stare oltre il limite dello spazio della rete, poiché altrimenti i processi virtuali periferici sarebbero falliti. Quindi, l’esigenza della globalizzazione e della diffusione planetaria, sono i fattori che costituiscono la condizione più importante della virtualizzazione e della società post-industriale.

Il colpo più duro è stato inferto alla religione del “vitello d’oro” nell’autunno del 2008, manifestando la crisi più profonda della “nuova economia”. Tuttavia, è anche stato un sintomo di processi più profondi, come la crisi filosofica, della Weltanschauung della società post-industriale e il fallimento del culto mondiale del “vitello d’oro”.

L’“Uomo derivato”

La scoperta del conflitto frontale fra virtuale e reale costituisce uno dei motivi fondamentali della crisi. La virtualizzazione e l’economia virtuale si sono rispettivamente sviluppate in tempi così rapidi ed anomali, che al di fuori di questo campo di applicazione si è venuta a trovare un’ingente massa critica di realtà: di persone reali, della società reale, di reale mercato delle regole (equilibrio tra domanda e offerta). L’infinità della crescita è stata garantita soltanto dalla proiezione globale, universale e totale di questo processo. In realtà, il passaggio dal reale al virtuale, dal concreto al derivato sarebbe dovuto avvenire in tutti gli ambiti della vita. E cosa più importante: sia lo sviluppo economico che quello tecnico avrebbero dovuto permettere la nascita dell’“uomo nuovo”, l’uomo del “liberalismo conquistato”, “l’uomo derivato”.

Le stesse grandi ideologie del XX secolo (comunismo e fascismo) affermarono la necessità dell’“uomo nuovo”. Per i marxisti questo sarebbe dovuto essere l’uomo, fornito della coscienza comunista, completamente affrancato dai codici della società classista. Per la creazione e la formazione di un tale uomo i bolscevichi, dopo la rivoluzione del 1917, avevano investito tutte le loro forze. Anche il nazionalsocialismo tedesco aveva proposto la sua versione dell’“uomo nuovo”, per mezzo dell’igiene razziale e della purezza ariana. Benché l’odierna trionfante ideologia liberale non sia un software, nella pratica si è accostata ad un modello simile, per una permanenza unica ed adeguata nel mezzo virtuale, nella “nuova economia” e nella “comunità globale” erano necessarie persone di un altro tipo, non reali, ma virtuali, individui post-umani. Soltanto questi possono svilupparsi al ritmo della “crescita infinita”, senza degenerare, completamente subordinati ai sistemi di codificazione globale sulla falsariga di “Matrix”. Questa “nuova umanità” globalista non deve dipendere dalla nazione, dallo stato, bensì deve possedere la capacità di cambiare arbitrariamente l’ambiente, la professione e perfino il sesso, a seconda della necessità del caso o dello sfizio. In prospettiva queste mutazioni devono essere ancora più profonde e di fatto devono entrare già, nel pieno senso del termine, a far parte dell’essenza post-umana: cloni, cyborg e virtuali.

Questo è ciò che può essere definito come “derivato”; soltanto la sua comparsa può garantire stabilità e “perennità” al sistema virtuale e al sistema finanziario virtuale, (alla “nuova economia”). Eppure soltanto l’“uomo derivato” (uomo-opzione, uomo-future) possiederà le cose necessarie per questa versatilità e per questa possibilità dinamica di adattamento auto-migliorativo dei biomeccanismi.

Crisi attuale: l’ultima o la penultima?

La principale causa filosofica della crisi risiede nella mancata attuale realizzazione dell’“uomo derivato” il quale per ora rimane il medesimo, ostacolando la sua trasformazione nel tipo astratto ed ideale. E, sebbene le masse cosmopolite dei globalisti manifestino molte proprietà del prototipo post-umano, finora di autentici cyborg o cloni non se ne sono visti. L’attuale assenza di una produzione significativa di “umanità derivata” globalistica, costituisce indubbiamente la causa primaria del fallimento dell’economia globale.

La corrente crisi rappresenta la crisi finale del sistema capitalista mondiale (attraverso la conclusione del liberalismo e della “nuova economia”), oppure il fallimento definitivo, da cui scaturirà l’aggiustamento e la produzione accelerata dell’“umanità derivata”; la nuova e più aggressiva ondata di virtualizzazione e di globalizzazione (possibilmente, con l’aiuto di nuovi mezzi e di metodiche, precedentemente non utilizzate dal sistema capitalista).

Mentre, se questa crisi è l’ultima ed il liberalismo è caduto vittima del fallimento nella transizione verso l’“uomo nuovo” (riguardo al quale, qualcosa è venuto da nazisti e comunisti), saremo testimoni del collasso globale, del ritorno alle strutture economiche e sociali proprie del passato in varie parti del mondo, fino a rasentare forme di arcaismo. In questo caso i residui del capitalismo potrebbero accostarsi a sistemi socialisti, monarchici, nazionalistici, teocratici od altro, nondimeno recuperare il baratto naturale o barbarizzarsi in forme primitive di agricoltura.

Nel caso, invece, in cui la crisi fosse superata, senza uscire dai limiti della teoria e della pratica liberali, il mondo vedrà mutamenti globali. Mentre, sarà impossibile eliminare le conseguenze della crisi, e ci dovremo aspettare una serie dei conflitti armati su vasta scala oppure catastrofi, che distoglierebbero l’attenzione dell’umanità dall’abisso in procinto di aprirsi.

Nella seguente fase – per esempio, dopo una serie di conflitti regionali micidiali, di esplosioni sociali e di crisi regionali – il globalismo uscirebbe come l’unico modello di salvezza e di riconciliazione, ed i suoi dogmi (compresa la religione del “vitello d’oro”) comincerebbero a mettere radici in schemi più estremi. Dopo di ciò, il processo di virtualizzazione procederà con ritmo accelerato e l’“uomo derivato” (cyborg e clone) sarà innestato in maniera totale e totalitaria.

In qualunque caso i globalisti dovranno cambiare le tattiche e orientarsi verso gli arsenali di regimi più severi e verso metodi più diretti e antidemocratici. La continuazione di un tale sviluppo degli eventi potrebbe dare adito agli scenari di romanzi o di film fantastici che preconizzano la guerra fra il genere umano ed i robot (non si sa, se con esito positivo o negativo).

La Russia e la fede nel “vitello d’oro”

“La religione del “vitello d’oro” è diventata ufficiosa, sebbene soltanto come religione delle élite politiche della Russia, dopo il collasso del comunismo. Sviluppo, modernizzazione, globalizzazione, mercato, valori liberali, i diritti dell’uomo. Tutto questo è stato accettato alla stregua di un imperativo indiscutibile della società russa. Le élite politiche ed economiche della Russia si sono integrate nel mondo occidentale, emulandone i valori, la tecnologia, metodologie e principî. Di conseguenza l’attuale crisi per l’élite russa governante è assoluta.

Nella storia della Russia post-comunista ci sono due periodi, in cui la religione del “vitello d’oro” si è praticata nelle varie forme.

Negli anni ‘90, fino a Putin, essa ha costituito il programma apertamente ufficiale dell’élite governante. I riformatori, gli oligarchi e i democratici dell’epoca di Eltsin, consideravano l’integrazione nella comunità globale – sotto l’egida dell’Occidente e degli USA – una missione primaria. Il loro scopo era l’inserimento della Russia nella “nuova economia”. A quest’obiettivo sono state sacrificate tutte le vittime, compresa la sovranità nazionale della Federazione Russa.

Dopo l’avvento del presidente Putin è stata effettuata una seria rilettura della “fede liberale”. Putin ha abbandonato il progetto d’integrazione graduale nella “nuova economia” mantenendo il controllo sullo spazio politico della Federazione Russa a favore dell’amministrazione nazionale. Putin non ha promosso nessun’ideologia alternativa, al contrario. Egli non ha né contestato né confutato il globalismo, l’economia di mercato ed il liberalismo, anzi ha apertamente prestato giuramento a tutto questo, dopo essersi definito un manager assunto al servizio del paese nonché essere stato designato come tale alle elezioni del 2008. Tuttavia egli, si è decisivamente rifiutato di cedere il controllo ad un’amministrazione decentrata della Russia. Ha riconosciuto la legittimità della “governance del mondo” soltanto a condizione dell’ingresso nella sua struttura della Russia, ma con il mantenimento della sovranità nazionale. Non è stata contestata né la fede nel “vitello d’oro”, né la “chiesa” globalistica, ma soltanto il volume e la distribuzione dell’autorità nell’amministrazione di queste o altre sue “diocesi”, lo status dei “vescovi”, ecc.

Di conseguenza, tutte le contraddizioni emerse con l’Occidente e gli USA hanno portato, durante l’epoca di Putin, un carattere prestabilito. Così al progetto comune concorrono fra di loro partner e dipartimenti governativi dell’uno e dell’altro paese. In termini di valore, Putin ha sempre riconosciuto la Russia come un “paese europeo e parte della civiltà occidentale”, inoltre, ha insistito sulla sua democratizzazione, liberalizzazione, modernizzazione e sul suo ingresso negli istituti dell’economia mondiale (in particolare, nel WTO). Con Putin è stato intrapreso un moto sinergico volto alla globalizzazione, al liberalismo e al monetarismo competitivo finalizzato al controllo amministrativo del territorio della Federazione Russa. Questa è stata la formula di Putin – “liberalismo + patriottismo” ovvero “nazional-globalismo”.

In tale situazione l’attuale crisi ci ha colto all’improvviso, poiché la politica del presidente Medvedev riproduce per sommi capi (sebbene con alcune sfumature) la logica di Putin per priorità e fini.

Conseguenze della crisi per la Russia

L’economia russa è legata a istituti finanziari di categoria minore, fra cui ci sono i paesi dell’Occidente e perfino alcuni paesi in via di sviluppo dell’Asia. In India e a Singapore il numero dei detentori di azioni e di speculatori sul mercato azionario eccede considerevolmente la percentuale dei russi, i quali sono direttamente connessi a questo settore dell’economia. Un’osservazione che avrebbe potuto eccitare le speranze e ispirare l’ottimismo, ma purtroppo non è stato così.

La Russia è integrata nella “nuova economia” attraverso il proprio sistema finanziario, basato sul dollaro, cui è vincolata come ad una valuta di riserva mondiale. Il sistema bancario russo non è separato dal sistema bancario del resto del mondo e la crisi di quest’ultimo si riflette nel funzionamento delle banche russe non meno che in quelle occidentali.

Un fatto che ha provocato la totale depressione del mercato della borsa-valori russa è stato il mercato delle blue chip. Di primo acchito da ciò traggono svantaggio soltanto gli oligarchi e gli speculatori importanti. Tuttavia, ciò si riflette su tutti.

Il fatto è che, privati da qualsiasi tipo di copertura sui beni reali ed in generale sul mercato azionario – ripetutamente sopravvalutato attraverso il meccanismo della capitalizzazione del mercato – i titoli valutari, le azioni, i derivati e quant’altro, che erano alla base della ricchezza dei “nuovi russi” e soprattutto degli oligarchi, rappresentano, in effetti, da sé sia giuridicamente che economicamente quello stesso denaro, retribuito al minatore o all’insegnante, lo stesso che circola fra l’avventore ed il negoziante. Ma queste istituzioni finanziarie, a loro volta, sono inestricabilmente interdipendenti con i meccanismi finanziari della “nuova economia”.

Di conseguenza la recente notizia delle perdite subite da Oleg V. Deripaska o da Roman A. Abramovič, sarà resa nota all’intera società. Le unità finanziarie, ovvero lo stesso denaro, le merci concrete, nonché le loro modalità di produzione, di acquisizione e di scambio, ripetutamente sopravvalutate, non sono state assicurate in nessun modo.

La “nuova economia” non è la sovrastruttura artificiale sovrastante l’economia reale, bensì una sua imprescindibile porzione. Così il tumore canceroso si trasforma gradualmente nella parte del tessuto organico dell’organismo vivente. E a quel punto è troppo tardi anche per intervenire, rimuovendolo tramite un’operazione radicale.

Se la crisi del 1998, legata alla caduta del mercato delle Obbligazioni Governative a breve Termine aveva consentito di compiere tale operazione in modo radicale, non incidendo sul settore reale dell’economia, oggi questo non è più ripetibile.

L’economia reale, che non sarebbe stata toccata dal settore finanziario, in Russia è praticamente inesistente (del caso OPK discutiamo successivamente).

Così come non c’è settore finanziario, completamente isolato dal sistema finanziario internazionale. A ciò ha condotto la fede nel mercato di Putin, espressa nelle sue frequenti simpatie per i liberali – Kasyanov, Gref, Kudrin, Nabiullina, Dvorkovič, Illarionov – tutti coloro che dirigono il blocco economico del governo o che hanno determinato il corso dell’economia nell’amministrazione del presidente. Tutti questi (con la presidenza di Putin ed ora) sono stati e sono i monetaristi convinti e gli adepti del culto del “vitello d’oro”.

Cifre in odore di petrolio

Il fondamento economico della Russia, durante l’era Putin, era composto dalla vendita di risorse naturali non trattate. L’intero budget del paese si è costruito su ciò. Il prezzo dell’energia e delle risorse minerarie negli ultimi 10 anni, è costantemente cresciuto e questo è divenuto la base della crescita dell’economia russa. Tuttavia, la struttura di questa crescita è connessa ai processi macroeconomici generali – quindi priva di riferimenti al modello arcaico (petrolio estratto e venduto) – bensì alla “nuova economia” e alle sue complesse procedure.

La crescita dei prezzi dell’energia come delle risorse finanziarie è diventata, a partire dagli anni ‘90 e particolarmente degli inizi del 2000, una delle strategie nelle mani dei globalisti per aggiustare il settore finanziario. In proporzione, così come ogni sorta di derivati finanziari, sono aumentate di prezzo secondo la logica autonoma della “crescita infinita”.

Gli strateghi del monetarismo hanno individuato alcuni obiettivi che possiedono rilievo finanziario, includendoli nell’ambito degli investimenti borsistici prioritari. A questi sono legati la supervalutazione globale del bene immobile mondiale, eccedente tutti i valori immaginabili ed impensabili del mercato azionario ed i prezzi dell’energia.

I prezzi del petrolio e del gas nel 2000 sono saliti non solo a causa del deficit aggravatosi di queste merci, ma anche perché mediante quest’operazione il sovreccitato mercato finanziario si è autoregolato.

Il crollo del mercato finanziario non è a caso iniziato dalla crisi ipotecaria negli USA, cui è conseguito un calo nei prezzi delle materie prime. In una parola, i prezzi delle materie prime, così come anche quelli delle abitazioni, sono stati così gonfiati e il tutto ha costituito soltanto una fra le tendenze della virtualizzazione generale dell’economia. Ora i prezzi delle materie prime cadranno (approssimativamente fino a $50) ed i meccanismi finanziari, che hanno accettato la logica delle transazioni su queste, cominceranno a slittare. Di conseguenza la speranza che, nelle circostanze della crisi finanziaria globale l’economia della Russia orientata sulle esportazioni rimanga impassibile e affidabile, è priva di fondamento.

Oltre a ciò, il mercato fondiario russo, dove in sostanza le azioni delle aziende energetiche e di altri rivenditori quotate per mezzo delle risorse minerarie, ha, a sua volta, moltiplicato – questa volta già nei limiti del sistema finanziario russo – la sua remuneratività. E questa ha già portato ad una crescita degli indici macroeconomici dell’economia russa. Il collasso del mercato azionario russo ha fatto sprofondare anche questi indici, che sono serviti, a quanto sembra, come supporto affidabile per l’economia russa.

E persino il valore di bilancio delle stesse grandi aziende, per di più nelle condizioni del collasso finanziario, è relativamente modesto. Ma questa constatazione ci porta agli stessi cupi pronostici in materia di bilancio.

In Russia, al di fuori dell’esportazione di risorse e dell’inserimento di tecnologie delle informazioni o altre infrastrutture della società post-industriale, non è praticamente rimasta nessun’altra economia. Negli anni ‘90 i liberali-riformatori, come programmato, hanno smantellato e disfatto i resti dell’industria sovietica, mentre nel 2000 sullo sfondo di un aumento selvaggio dei prezzi delle materie prime, non era considerato vantaggioso occuparsi di un contesto difficile e oneroso come il ripristino della produzione nazionale. Con l’ultimo exploit dell’economia reale, le misure intraprese dal governo Primakov per eliminare le conseguenze del default del 1998 hanno anche conseguito il loro effetto positivo, tuttavia, il successivo aumento dei prezzi delle risorse ha ripristinato lo status quo. Nel vortice della crisi mondiale la Russia è rimasta priva di economia.

L’economia virtuale è collassata, e di reale non ne è rimasta. Oltre a ciò, le immani perdite finanziarie, subentrate oggi nell’economia russa, rappresentano una barriera fondamentale per qualsiasi azione che non sia nociva per le strutture esistenti e che risulti decisiva al rilancio del settore reale.

Di conseguenza a Medvedev e Putin, che sono rimasti nel quadro dello status quo, resta un’unica chance: aderire ai meccanismi del vascello alla deriva della “nuova economia”, auspicando che se la cavi a sua volta.

Putin ha puntato sulla “nuova economia”, tentando simultaneamente di competere con quelle, che l’hanno generata. Non ha pensato ad un’alternativa, non gli è stato possibile in questo tempo o con queste forze. Ora, purtroppo, è giunto il tempo della dura lex dell’esborso.

Il Complesso militare-industriale e l’attuale crisi finanziaria

Il merito di Putin è stato quello di aver tracciato il vettore della sovranità geopolitica della Russia. E sebbene lo abbia inserito nel contesto più ampio della sua aderenza al globalismo ed al liberalismo, ovvero sia stato combinato alla fede nel “vitello d’oro” ed alla “nuova economia”, in pratica questo ha condotto al consolidamento della posizione regionale della Russia e del suo relativo status.

All’interno dell’economia, questo vettore di consolidamento della sovranità, ha in primo luogo influenzato una politica statale rivolta verso gli armamenti, verso il Complesso militare-industriale (OPK), a cui sono stati indirizzati notevoli strumenti del budget. I dividendi, ottenuti dall’esportazione delle risorse naturali sono stati ridistribuiti a vantaggio del Complesso militare-industriale. Per suo carattere, questo rappresenta la parte più chiusa dell’economia russa, appena tollerata dal mercato e poco allacciata al settore reale. Fra i vari segmenti economici il Complesso militare-industriale è risultato essere il meno intaccato dalla crisi, benché questa sfera, ovviamente, non possa essere interamente indipendente dalle condizioni generali dell’economia. Del resto, se si considera del tutto verosimile che gli USA usciranno dalla crisi mediante conflitti militari, proprio il Complesso militare-industriale russo avrà le maggiori chance di trasformarsi nel settore di sostegno dello stato russo nella fase successiva. E, sebbene questo sarà connesso con lo sviluppo di processi politici, ideologici e geopolitici complessi e multidimensionali, il loro senso e la loro logica sono difficili da preannunciare.

Se nel 1998 la crisi del mercato delle Obbligazioni Governative a breve Termine (GKO) ha segnato la fine dell’oligarchia filo-occidentale (forma diretta del culto del vitello d'oro), e come conseguenza dell’arrivo Putin, si è fatta pulizia degli oligarchi più filo-occidentali, l’attuale crisi deve logicamente portare a compimento un periodo di dominazione delle forze che hanno operato sotto l’egida del “liberal-patriottismo”, o del “nazional-globalismo”, cercando di combinare l’integrazione nell’economia mondiale, mantenendo il controllo del paese nelle mani dell’amministrazione nazionale.

Negli anni ‘90 il Complesso militare-industriale (che allora si chiamava VPK) versava in totale stato d’abbandono. Ha cominciato a crescere con Putin, poiché il potere ha cominciato a capire, che questo settore rappresenta una garanzia concreta per la sovranità della Russia e quindi il principale strumento per la conservazione del controllo. Tuttavia, il suo sviluppo è stato intrapreso ammiccando agli schemi liberali ed in ottemperanza alle regole del mercato globalistico.

La crisi georgiana dell’agosto 2008 e in particolare il crollo dell'economia globale nel mese di settembre e ottobre di quest’anno, hanno posto il Complesso militare-industriale non solo al centro della politica russa, ma anche al centro della situazione economica. Questa circostanza comporterebbe un cambio dei leader del paese, momentaneamente impossibile da prevedere, sebbene al contempo ovvio, in quanto le élite politiche ed economiche di matrice “nazional-globalistica” sono destinate a scomparire a favore dell’inevitabile salita al potere dei “nuovi governanti”.

Neo-conservatorismo negli USA e “il Keynesianismo militare”

Il tema dei “nuovi governanti” chiama evidentemente in causa quello dell’associazione con i neo-conservatori americani. E quest’associazione non è casuale. Il fatto è che il sistema politico americano ha ricevuto dalla crisi un colpo colossale, che ora dev’essere in qualche modo esaminato. L’economia liberale nella sua forma finanziaria attuale post-industriale, essenzialmente, è caduta in default e ciò influenzerà l’intero sistema politico americano.

Uno dei piani d’azione per sormontare la crisi è costituito dall’ingente rafforzamento del Complesso militare-industriale americano. Il passaggio al modello del “keynesianismo militare” in cui l’amministrazione dello stato per mezzo dell’economia, transiterà verso la forma di un aumento netto della difesa e dell’espansione del settore pubblico. Questo però non è il keynesianismo volontario e trasparente dello spirito del New Deal di Roosevelt, bensì il keynesianismo pragmatico, intriso di retorica liberale e stretto a forza nelle maglie di ferro delle circostanze estreme. E qui nuovamente la via d’uscita più diretta per gli USA sarebbe ancora la guerra (preferibilmente il più lontana possibile dal proprio territorio).

Dell’elaborazione della piattaforma teorica, nell’eventualità di questa svolta degli eventi, se ne è estesamente occupato il gruppo dei neo-conservatori americani (P. Wolfowitz, W. Kristol, R. Kagan, R. Cheney, R. Shoneman, D. Keyl, ecc.), che ha rinforzato le sue posizioni durante l’era Bush jr. e che ora collabora molto attentamente con MacCain. Lo slogan della loro ideologia: “l’America, in primo luogo!”. Questi neo-con parlano apertamente degli USA come “impero mondiale” e “auspicabile egemonia” tanto da poter sacrificare i valori ed i principî liberal-democratici al conseguimento di obiettivi concreti. Soltanto loro oggi, all’interno dell’establishment politico americano, hanno un’idea circa come uscire teoricamente dalla situazione prestabilita. Questa via d’uscita consiste nell’istituzione di una dittatura orto-repubblicana.

Per altre persone questa via d’uscita conduce soltanto alla guerra. E non a caso i neoconservatori hanno spinto proprio Saakashvili in agosto nell’attacco alla capitale dell’Ossezia del sud, Tskhinvali.

Neo-con russi?

In teoria i “nuovi governanti” in Russia, sarebbero dovuti essere, in termini generali, un’iterazione del modello americano, in cui i nazionalisti, mossi dal messianismo, dal fondamentalismo e dal tradizionalismo protestante, nonché dipendenti dal Complesso militare-industriale, dileggiano gli standard liberal-democratici. Pertanto essi dovrebbero essere i patrioti russi (eurasiatici) orientati verso una mobilitazione sociale, verso l’impero russo e l’ortodossia e la confessione tradizionale, difensori dell’idea economica di Friedrich List (“Autarchia dei grandi spazi”), di Keynes (“l’Isola economica”, “Il valore positivo dell’inflazione”), di Schumpeter (“Il primato dello sviluppo economico, sulla crescita economica”), possibilmente, di Silvio Gesell (“La depravazione del principio della crescita monetaria per lo sviluppo del settore reale”, che ricompose in maniera tanto magnifica nei suoi versi, il grande poeta americano Ezra Pound), e a breve termine, ricette di economia bellica.

A differenza dei neo-con americani, tale gruppo in Russia, non solo non è visibile negli alti ranghi del potere, ma non sembra nemmeno esistere. Putin e i suoi seguaci hanno soltanto scommesso sul “nazional-globalismo”, marginalizzando e disperdendo con abilità tutte le altre tendenze ideologiche. Tuttavia, nonostante non esistano neo-con russi, lo sviluppo dei processi socio-politici, economici ed ideologici, così come la crescente escalation delle relazioni russo-americane negli spazi post-sovietici (il Caucaso meridionale, l’Ucraina, ecc.) rende necessaria la comparsa di un tale gruppo. Analisti occidentali (ad esempio, l’italiano Massimo Boffa su “Panorama” del 15.10.2008) hanno già iniziato a scrivere su questo, sull’esempio di vari politologi e pensatori russi (V. Surkova, V. Tretyakova, ecc.).

Progetto neo-con russo

È logicamente facile da abbozzare il programma, che questa fazione di neo-conservatori potrebbe proporre in Russia per sormontare la crisi: 
- Riduzione della democrazia (anche di facciata) e transizione verso un modello di mobilitazione della società su base corporativa; 
- Istituzione di una “dittatura dei commissari” e concentrazione del potere nelle mani di un gruppo patriottico di alti funzionari, che conducano il paese fuori della crisi (con lo slogan “la Russia in primo luogo”); 
- Introduzione del capitalismo di stato e trasferimento dell’attenzione principale verso il Complesso militare-industriale; 
- Nazionalizzazione delle grandi industrie e, in particolare, del settore delle risorse estrattive; 
- Introduzione di un’imposta progressiva sul reddito e aumento della tassazione sul reddito; 
- Garanzia della sicurezza alimentare e investimenti mirati per i villaggi; 
- Sostegno sociale alla popolazione; 
- Minimizzazione del mercato azionario e creazione di un controllo governativo diretto sul sistema bancario; 
- Riorientamento del commercio estero da Ovest verso Est, verso i paesi dell’Asia; 
- Rafforzamento del partenariato economico con la Cina, l’Iran, la Turchia e i paesi della regione del Pacifico; 
- Prosecuzione del partenariato energetico con l’Unione Europea, in concomitanza al completo disinteressamento per i valori europei e per l’ideologia dei diritti umani; 
- Approvazione del sistema nazionale e conservativo dei valori (religione, famiglia, moralità, patriottismo, disciplina, servizio, salute, sport, onore e responsabilità) al posto del permissivismo liberal-democratico e dell’edonismo; 
- Promozione attiva del tasso delle nascite (materiale e morale), incluso il divieto di aborto; 
- Rigido controllo ideologico e valoriale sui media; 
- Rafforzamento del ruolo della chiesa; 
- Misure di emergenza per la lotta contro la corruzione su base ideologica; 
- Politica attiva per l’integrazione dello spazio post-sovietico, sotto l’egida della Russia (in forma morbida e dura); 
- Strategia per l’integrazione delle minoranze etniche nella “nazione russa”.

L’ordine e la formulazione esatta di questi elementi può variare. Ma una cosa dev’essere chiara: la via d’uscita neoconservatrice della Russia dall’attuale stato delle cose deve respingere il principio della “nuova economia”, del globalismo e del liberalismo nelle sue dimensioni teoriche e pratiche. Ciò significa dire un “no” deciso alla “nuova economia”, alla “società virtuale”, alla religione del vitello d'oro (sia essa sotto la forma manifesta o criptica del “nazional-globalismo”). Ovviamente è impossibile dire come questo processo si concretizzerà, con quali difficoltà cozzerà e in che modo sarà attuato.

Da vittime a salvatori

Le autorità non cessano di convincere i russi del fatto che non serve spaventarsi per la crisi e si sforzano, in ogni maniera possibile, nel sostenere l’immagine della valuta nazionale.

Il coinvolgimento delle prime personalità dello stato nei problemi finanziari dei cittadini non può non render lieti. Tanto più che sia in dichiarazioni delle autorità che da parte del fervore nazionale è trapelato uno slogan: “Ora siamo più ricchi degli americani – ha recentemente asserito il premier della Federazione Russa, Vladimir Putin –, loro si sono completamente impoveriti”. Tuttavia, quando le autorità convincono troppo frequentemente e metodicamente del fatto che “tutto sarà positivo”, i dubbi si insinuano: ma non potrebbe anche essere, questa, una smania di dissimulare con belle parole una realtà poco attraente? Una risposta univoca a questa domanda, anche se la sapesse, difficilmente qualcuno la esprimerebbe. Ciò che rimane è l’orientamento verso l’opinione delle fonti primarie – ovvero del presidente della Federazione Russa, Dmitriy Medvedev, e del premier Vladimir Putin.

Alla fine di ottobre, quest’ultimo ha partecipato alla riunione dei capi di governo dei paesi dell’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione, dove ancora una volta si è espresso sulla crisi finanziaria mondiale e sulla partecipazione della Russia alla sua localizzazione, affermando che: “Il tema della concorrenza si trasforma in valore ed in modelli di sviluppo. Incentiva la formazione di nuovi centri d’influenza economica e politica. La situazione attuale mostra la decadenza del monopolio finanziario e della politica fondata sull’egoismo economico. La Russia si rende disponibile a collaborare ad un cambiamento dell’architettura finanziaria globale onde trovare una soluzione ai problemi esistenti”.

Alla fine dell’accordo, Putin, rispondendo alle domande dei giornalisti, ha rilasciato ancora alcune “rasserenanti” dichiarazioni: “Così come ho depositato i risparmi nella Sberbank e nella Vneštorbank, tali sono rimasti – ha detto il premier. – Non vedo la necessità di interventi in questo settore”. Da noi il sistema bancario funziona, grazie a dio, è adeguato, abbiamo parlato molte volte di ciò, ha assicurato poi Putin ai rappresentanti dei media. Tuttavia, ha riconosciuto che è necessario cambiare qualcosa: “In primo luogo, nell’ambito bancario è necessario promuovere, in una certa misura, la congestione finanziaria in modo che il denaro reale raggiunga il settore reale dell’economia”.

Anche il presidente della Federazione Russa, Dmitriy Medvedev, come Putin, ha informato i media di tenere i propri risparmi in rubli nelle banche russe. Medvedev inoltre assicura, che la Russia non è minacciata, ed accusa gli altri paesi d’istigazione alla crisi finanziaria globale: “Uno dei principali motivi della crisi corrente è stato proprio il disallineamento del ruolo formale degli Stati Uniti d’America nel sistema economico mondiale e la sua effettiva capacità. Ci potrà anche essere un grande mercato americano così come un sistema finanziario americano affidabile, ma essi non sono in grado di sostituire da soli il prodotto globale ed i mercati finanziari”.

Allo stesso tempo Medvedev riconosce che la crisi dei mercati finanziari mondiali si è rivelata essere molto più profonda delle aspettative più pessimistiche. Tuttavia, in questo caso il capo dello stato non si dimentica di puntualizzare che in Russia ci sono riserve sufficienti e un’economia forte e questo rappresenta una garanzia contro qualsivoglia shock.

 

Inoltre, Medvedev, come anche Putin, considera la Russia come uno dei paesi chiave per liquidare la crisi finanziaria globale: “Personalmente ho l’impressione che l’Europa capisca che senza la Russia non può essere risolto nessuno dei problemi economici globali. Dipendiamo strettamente l’uno dall’altro, se a discutere della crisi finanziaria mondiale cooperiamo dimenticando le divergenze”.