L’Eurasia si farà e si sta già facendo

 

L’Eurasia si farà e si sta già facendo

Alla vigilia della visita del Presidente degli USA in Russia, nell’arena internazionale si è verificato un importante evento, peraltro ampiamente trascurato di fronte al summit intercontinentale. La maggior parte dei mezzi di informazione ha dato solo un minimo spazio alla notizia della conversione del sistema di coordinamento esistente nell’ambito dell’Accordo sulla Sicurezza Collettiva della CSI in una organizzazione internazionale regionale, l’Organizzazione dell’Accordo sulla Sicurezza Collettiva. In realtà, si tratta di un passo il cui valore può essere difficilmente sottostimato. Ma, per quanto sia strano, all’evento non ha fatto seguito la pubblicazione di alcun serio materiale analitico sulla grande stampa russa.

Qual è l’aspetto geopolitico della questione? Per poter valutare con la dovuta chiarezza il significato di questa risoluzione è necessario spendere qualche parola riguardo alle precedenti soluzioni della questione.

Sul piano geopolitico, con la fine degli anni ’80 è iniziata la graduale de-costruzione del potenziale strategico del polo terrestre, lo spazio strategico Eurasiatico, a quel tempo fissato entro il quadro dell’Accordo di Varsavia. Se in senso ideologico l’Accordo di Varsavia era concepito come l’unione di paesi caratterizzati da un’economia socialista ed una filosofia marxista, in una visuale geopolitica esso era il contenitore formale di una costruzione continentale, terrestre, opposta all’atlantismo, a quei tempi identificato nei paesi di tipo capitalista. Notiamo subito che questo modello ideologico assumeva in pieno l’eredità della disposizione geopolitica delle forze precedente, pre-rivoluzionaria, quanto non si trattava del contrasto fra campi ideologici ma fra zone di influenza dei principali stati europei. Prima dell’URSS la medesima funzione strategica eurasiatica veniva svolta dalla Russia imperiale. 

L’Unione Sovietica ruppe nettamente i propri legami ideologici con il passato, con lo zarismo, ma geopoliticamente, quasi nulla fosse accaduto, ne eredità la medesima funzione strategica. Le leggi della geopolitica si dimostrarono più fondamentali delle leggi della filosofia.

La crisi del marxismo nell’URSS e nei paesi dell’Europa Orientale portò con sé anche la dissoluzione dell’Accordo di Varsavia. Ma da parte dei paesi della NATO, che riuniva in sé le società ad economia capitalista, non venne una risposta simmetrica. Per di più, lo spazio strategico ora libero venne ad essere occupato a poco a poco dall’influenza atlantista: i paesi dell’Europa Orientale cominciarono a fare a gara per richiedere lo status di membri della NATO. Geopoliticamente questo significava prendere le distanze dall’eurasismo ed entrare nell’orbita dell’atlantismo. Né poteva essere altrimenti, dato che i sistemi geopolitici sono fra loro connessi come vasi comunicanti: alla decrescita dell’eurasismo corrisponde la crescita dell’atlantismo, e viceversa.

Lo stadio successivo dell’auto-liquidazione portò alla dissoluzione dell’URSS stessa. Politicamente ed ideologicamente ciò avvenne in modo abbastanza radicale, ma sul piano strategico un’azione altrettanto drastica era semplicemente impossibile. Perciò il sistema integrato dei quartier generali del paesi della CSI [Comunità degli Stati Indipendenti] venne conservata come eredità strategica, come centro di coordinamento della direzione comune delle forze armate dei paesi di nuova formazione. Fondamentalmente, al pari della CSI, questa struttura militare venne inizialmente pensata come lo strumento di un “graduale e civile divorzio”.

Tuttavia, col passare del tempo questo fattore strategico, al pari di non meno definite ragioni di ordine economico, doganale e persino politico, hanno riportato all’ordine del giorno la geopolitica. E’ così risultato evidente che l’unità strategica delle potenze Eurasiatiche – quali sono senza dubbio tutti i membri della CSI – è molto più profonda della forma politica esteriore della storia del periodo sovietico o dell’impero russo.

I popoli e le élites politiche ed economiche delle repubbliche un tempo sorelle hanno incominciato a vedere sempre di più la comunità di interessi come comunità di destino (Gasprinskij). Così, invece dello strumento per un “divorzio civile”, la CSI ha incominciato gradualmente ad essere vista come qualcosa di diverso: come una fase di un nuovo processo, il processo dell’integrazione Eurasiatica. Qui va dato merito al presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev, il quale per primo iniziò a parlare di una “Unione Eurasiatica”. Fra l’altro, nel 1994 un progetto analogo, diverso solo per la denominazione, venne presentato anche dal Presidente dell’Uzbekistan Islam Karimov; questi più tardi assunse tuttavia un atteggiamento geloso nei confronti dell’iniziativa di Nazarbaev ed incominciò a criticare l’“eurasismo”. Ma ciò che conta non è il nome, bensì l’essenza del fenomeno: la consapevolezza geopolitica dei dirigenti dei paesi CSI ad un certo momento – verso la metà degli anni ’90 – sotto la pressione del corso oggettivo degli sviluppi mondiali iniziò a rivolgere una crescente attenzione alla necessità di arrestare il processo di dissoluzione strategica dello spazio Eurasiatico.

Durante gli anni della presidenza Eltsin l’iniziativa per una nuova ondata di integrazione strategica Eurasiatica non ricevette alcun particolare appoggio nella Federazione Russa. Il Cremlino non vi si oppose apertamente, ma la guardò con freddezza. Da un lato, a questo contribuì il mito economico, attivamente diffuso dai “giovani riformatori”, secondo il quale ogni genere di riavvicinamento della Russia ai paesi CSI non è economicamente praticabile; dall’altro lato, il frenetico allineamento sulle posizioni dell’Occidente generò un sentimento di scetticismo e irritazione nei confronti delle repubbliche un tempo sorelle. Nazionalismo ed occidentalismo su questo punto andarono a braccetto. Inoltre, la febbre dell’anticomunismo fece sì che qualsiasi iniziativa di integrazione venisse identificata con un il “ritorno dei comunisti”.

Solo alla fine dell’epoca Eltsin, e specialmente con l’ascesa al potere di Vladimir Putin, la posizione del problema mutò. Grazie ad una solida formazione geopolitica, sottoposta alla prova della pratica, il nuovo presidente non poteva coltivare per inerzia miti irresponsabili ed effimeri. Passo dopo passo nelle Federazione Russa pensiero strategico e visione geopolitica del mondo vennero riportati in vita. Con Putin è iniziata la svolta dal “divorzio civile” alla “nuova integrazione”.

Ulteriori e importanti passi concreti fanno seguito. Primo: il legare in una “unione doganale” cinque paesi della CSI - Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizstan e Tajikistan. Sappiamo dalla storia che la realizzazione di una unione doganale è il primo passo economico verso l’ulteriore integrazione politica. Il primo teorico dell’unione doganale (Zollverein) fu Friedrich List, l’economista tedesco promotore del concetto di integrazione degli stati tedeschi, in seguito brillantemente realizzata nella pratica. Un modello analogo venne seguito anche con l’istituzione dell’Unione Europea, che ebbe inizio con misure di integrazione economica.

Dopo lo sviluppo dell’unione doganale, il passo successivo dell’integrazione economica fu la costruzione dell’EvraAzES: la “Associazione Economica Eurasiatica” fu un passo ulteriore sulla via della realizzazione di una conseguente “Unione Eurasiatica”, che estende il modello dell’integrazione doganale al livello di una più vasta partnership economica. Da un punto di vista geopolitico essa ha mostrato la volontà di rinascita del polo Eurasiatico, la lotta contro il quale è vista come questione prioritaria da strateghi atlantisti quali Zbigniew Brzeszinski, che descrive nel suo libro La grande scacchiera lo scenario di un ulteriore dissoluzione dei paesi CSI, ed in particolare della Russia, come lo scenario ottimale (per l’Occidente, più esattamente per gli USA). L’élite politica dei paesi CSI, presa coscienza della necessità di una nuova integrazione, ha trovato in Putin un punto di appoggio ed un centro geopolitico.

Nonostante le dinamiche ed i paradossi della congiuntura politica internazionale, il processo di integrazione Eurasiatica negli ultimi anni sta gradualmente prendendo velocità. Ed in questa chiave va letta la decisione della creazione dell’Organizzazione dell’Accordo sulla Sicurezza Collettiva.

Le strette di mano a livello economico hanno lasciato il posto a quelle a livello militare e strategico. Dichiarando la propria disponibilità alla costruzione di un’economia Eurasiatica integrata nella forma della EvraAzES – cui hanno recentemente aderito Kiev e Kishenev, seppure a titolo di osservatori – i capi di stato avviati sul cammino di una nuova integrazione Eurasiatica hanno compiuto il passo di dichiarare la propria volontà di creare un sistema di sicurezza comune. E’ il caso di sottolineare la fondamentale differenza fra questa nuova “organizzazione intra-regionale” rispetto ai precedenti sistemi di coordinamento fra le forze armate dei paesi membri della CSI: in realtà, gli strumenti amministrativi esistenti per pura inerzia e concepiti per una separazione graduale e “morbida” vedono ora mutare radicalmente il proprio significato. D’ora in avanti ci troviamo in una epoca di nuova presa di coscienza strategica di fini, minacce e sfide comuni, il che trasforma i partecipanti alla EvraAzES negli elementi di uno spazio strategico Eurasiatico unito, nuovamente organizzato in unità geopolitica.

Certamente, l’attuale forma della Organizzazione dell’Accordo sulla Sicurezza Collettiva non può reggere il paragone non soltanto con l’Accordo di Varsavia, ma anche con le Forze Armate dell’URSS. Tuttavia la linea geopolitica di questa impresa è estremamente importante. Se sforzi organizzati e costanti verranno spesi in questa direzione, lo status strategico dell’Eurasia potrà crescere in misura sostanziale. Certo, non dobbiamo peccare di eccessivo ottimismo: il potenziale militare aggregato dei paesi dell’Accordo è assolutamente inadeguato alla competizione con la potente NATO. Ma, del resto, non è questo il compito che esso si pone. Ciò che conta è semplicemente consolidare in passi concreti la volontà geopolitica della futura rinascita, esprimere la determinazione a rafforzare e difendere la propria sovranità strategica. E questo è in sé già moltissimo.

Un’ultima osservazione. E’ in agenda la questione di un sistema comune di “Sicurezza Eurasiatica”. Questo tema va ben oltre la dimensione dell’attuale “Accordo” e la dimensione del complesso dei paesi CSI. Nelle attuali condizioni planetarie, Sicurezza Eurasiatica presuppone da parte della Russia un sistema flessibile di alleanze ed accordi con la forze più diverse dell’Occidente come dell’Oriente. Unione Europea e Giappone possono essere considerati i limiti continentali dell’integrazione strategica dell’Eurasia. I paesi asiatici – Iran, India, Cina – rientrano già per natura nel novero dei diretti associati. E l’ampliamento del numero dei partecipanti alla Organizzazione dell’Accordo sulla Sicurezza Collettiva, in specifico ad altri paesi CSI, ad alcuni paesi Est-Europei e alla Mongolia, rappresenta in generale una questione urgente.

Nessuno vuole affermare che l’integrazione Eurasiatica sia qualcosa di semplice e facile. Creare e costruire è sempre più difficile che rovinare e distruggere. E comunque è necessario ammettere che tutte le precedenti varianti strategiche della geopolitica Eurasiatica, nonostante i molti pregi, avevano un enorme difetto: hanno fallito, si sono dimostrate effimere, non sono state all’altezza del compito storico di un’affidabile integrazione geopolitica del continente. Questo appare con evidenza nella limitatezza della filosofia Sovietica e nella palese inadeguatezza geopolitica dimensionale del blocco Eurasiatico nelle sue precedenti configurazioni; alcuni geopolitici europei (in particolare Jean Thiriart e Jordi von Lochhausen) da molto tempo avevano previsto che il destino dell’Accordo di Varsavia, nei suoi confini di allora, era storicamente segnato.

La sola via di salvezza per l’URSS (e prima di allora per l’Impero Russo) sarebbe stata la neutralizzazione dell’Europa (e del Giappone) e uno sbocco verso i mari caldi del sud: solo in tal caso il polo Atlantico sarebbe stato in un modo o nell’altro sopraffatto. Ma questo venne impedito dalla filosofia, fosse essa marxista, nel caso dell’URSS, o coloniale-zarista, nel caso dell’Impero Russo. Ad un certo momento sarebbe stato necessario sacrificare o la sovrastruttura ideologica o la geopolitica. Ahimè, nel XX secolo l’élite politica russa (sovietica) non volle sacrificare la propria filosofia. Per questo abbiamo pagato un prezzo. Ma non abbiamo il diritto di ripetere il loro errore. 
 

Rossiiskaja Gazeta, 4 luglio 2002, n.120 (2988);  http://www.rg.ru/ 

Trad. M.Conserva