ULISSE, ALESSANDRO E L'EURASIA
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ULISSE, ALESSANDRO E L'EURASIA
Qualche tempo fa rileggevo il canto XXVI dell'Inferno di Dante (il celebre canto di Ulisse). Come probabilmente ricorderete, a un certo punto l'Ulisse dantesco rievoca il discorso con cui egli esortò i suoi compagni di navigazione a varcare le Colonne d'Ercole: "O frati, dissi, che per cento milia - perigli siete giunti all'occidente (...)".
Sforzandomi di intravedere qualcosa di quel senso allegorico che, per espressa dichiarazione di Dante, si trova celato dietro il senso letterale, ho azzardato questa congettura: l'Occidente evocato da Ulisse nell'"orazion picciola" probabilmente non si esaurisce nell'accezione spaziale e geografica della parola "Occidente", che designa il luogo del "Sole che muore" (Sol occidens), il luogo in cui termina il cosmo umano e inizia il "mondo sanza gente", il regno della tenebra e della morte.
E' invece probabile che l'Occidente dantesco, data la polivalenza del simbolo, indichi anche una fase temporale, cosicché un senso ulteriore del discorso di Ulisse sarebbe che i suoi compagni, in quanto "vecchi e tardi", sono giunti "a l'occidente" della loro vita, cioè in prossimità della morte.
E siccome essi rappresentano l'umanità europea, come non intendere, simultaneamente, che l'Europa doveva arrivare - e vi sarebbe effettivamente arrivata proprio all'epoca di Dante, agli inizi del Trecento - in prossimità di quella fase storico-culturale che, secondo quanto ha detto René Guénon, "ha rappresentato in realtà la morte di molte cose"?
Ma l'Occidente, il luogo della tenebra, è anche un simbolo di quello che Martin Heidegger ha chiamato "l'oscuramento del mondo".
"Mondo" - spiega lo stesso Heidegger - "si deve sempre intendere in senso spirituale", sicché "l'oscuramento del mondo implica un depotenziamento dello spirito".
E la situazione dell'Europa, prosegue Heidegger, "risulta tanto più fatale e senza rimedio in quanto il depotenziamento dello spirito proviene da lei stessa".
Questo depotenziamento dello spirito, questo oscuramento del mondo, secondo Guénon ha avuto il suo momento definitivo con la fine della grande civiltà medioevale (l'ultima civiltà relativamente normale conosciuta dall'Europa) e con l'inizio della cultura immanentistica e laica del Rinascimento. Secondo Heidegger, "anche se è stato preparato in passato, esso (l'oscuramento del mondo, n. d. r.) si è definitivamente verificato a partire dalla condizione spirituale della prima metà del secolo XIX", cioè col trionfo del razionalismo contemporaneo, del materialismo, dell'individualismo liberale.
In ogni caso, possiamo dire che questo oscuramento del mondo è proceduto di pari passo con quella che è stata recentemente chiamata "l'occidentalizzazione del mondo".
L'inferno, nel fondo del quale è finito quell'Ulisse dantesco che lasciò l'Europa per inoltrarsi nella tenebra occidentale, è un Occidente perenne (legge del contrappasso!), perché la luce non vi splende mai. Dante esce da questa eterna tenebra occidentale e infernale grazie alla guida di Virgilio, il poeta dell'Impero; il poeta di un Impero che, come è detto in Paradiso, VI, 4-6, è per la sua stessa origine legato all'Europa: "cento e cent'anni e più l'uccel di Dio - ne lo stremo d'Europa si ritenne, - vicino a' monti de' quai prima uscìo".
Dobbiamo infatti ricordare che, secondo Dante, l'Aquila imperiale ("l'uccel di Dio") ebbe i suoi natali "ne lo stremo d'Europa", cioè nell'odierna Anatolia, là dove sorgeva Troia. D'altronde anche Europa, la fanciulla "dall'ampio volto" che fu amata da Zeus e che diede il suo nome al nostro continente, era originaria della riva orientale del Mediterraneo.
Sarebbe interessante soffermarci a notare come per i Greci e per i Romani, e poi ancora per gli uomini del Medioevo, l'immagine geografica dell'Europa si estendesse verso oriente molto più che non nell'età moderna e in quella contemporanea; ma questo sarebbe un altro discorso.
Noi, che siamo qui per parlare del "destino dell'Europa", dobbiamo invece domandarci: chi indicherà all'Europa, alle soglie del terzo millennio, la strada per uscire dall'Occidente e tornare "a riveder le stelle"?
La prima cosa da fare è operare un chiarimento. Dobbiamo cioè ristabilire i veri termini del rapporto che intercorre tra l'Europa e l'Occidente, rapporto di naturale contrapposizione e di antagonismo; dobbiamo confutare una scandalosa sinonimia che, imposta dai vincitori occidentali della Seconda Guerra Mondiale, è stata accettata dagli Europei nella maniera più acritica e supina.
Il concetto di Occidente è relativamente nuovo ed è quasi sinonimo di modernità; come visione del mondo, quindi, l'Occidente è essenzialmente altro rispetto a quello spirito che presiedette alle manifestazioni della civiltà europea nell'antichità e nel Medioevo.
E' vero che la civiltà occidentale cerca spesso di individuare le proprie radici in alcune delle fasi storico-culturali attraverso le quali si è venuta configurando l'Europa, vale a dire nell'antica Grecia, nel mondo romano o nella Cristianità latino-germanica.
Bisogna però obiettare che, se la modernità è "disincanto del mondo", è quanto meno azzardato presentare come antesignana della civiltà occidentale la cultura greca, cioè una cultura che non produsse soltanto anticipazioni del pensiero moderno quali il razionalismo sofistico e il meccanicismo atomistico, ma si espresse anche (e senza dubbio in maggior misura e con maggiore intensità) nei Misteri orfici ed eleusini, nella teologia della storia di Erodoto, nella metafisica dei Presocratici, di Platone e di Aristotele, nella poesia religiosa di Eschilo e di Pindaro, nella teurgia e nella mistica dei neoplatonici.
E neppure è chiaro in base a quale logica l'Occidente avrebbe il diritto di richiamarsi alla civiltà romana, la quale in realtà si fonda proprio su quanto vi è di più scandaloso dal punto di vista della modernità, ossia sull'identificazione dell'ambito religioso con quello giuridico e politico. Una identificazione che in seguito si è ritrovata semmai nell'Islam non certo nella civiltà occidentale.
D'altronde l'Impero di Roma, come successivamente anche l'Impero Bizantino e l'Impero degli Ottomani, non fu un impero occidentale, ma una grande sintesi mediterranea e, in una certa misura, eurasiatica. Anche il Sacro Romano Impero sembrò recuperare una dimensione di questo genere, allorché, con Federico di Svevia, la corte imperiale si trasferì a Palermo e l'Imperatore estese la sua autorità su Gerusalemme e altri luoghi della Palestina. La stessa Germania, che in quanto immagine storica dell'Impero medioevale è rimasta fino al 1945 das Reich, "l'Impero", ha sempre cercato il proprio spazio non a occidente, ma ad oriente.
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Tornando a Ulisse, ricordo di aver letto su una qualche gazzetta che l'Odisseo omerico, "fu il piazzista (sic) della modernità". Una volgarità del genere, che rivela l'esigenza della modernità di inventarsi una galleria degli antenati, è possibile proprio perché l'essenza dell'Odisseo omerico, prototipo dell'homo Europaeus, è stata fraintesa dalla modernità stessa.
Nella percezione moderna, infatti, Odisseo non è quello che era per i Greci, vale a dire l'anèr polytropos che, animato dalla nostalgia delle Origini e assistito da Atena, cioè dall'Intelletto divino, lotta contro le forze infere e, dopo la lunga prigionia nell'isola occidentale di Eea, fa ritorno a una patria "centrale", a una "terra di mezzo", che essenzialmente simboleggia la perfezione primordiale dello stato umano.
La modernità ha sfigurato l'Odisseo omerico facendone un eroe culturale a propria immagine e somiglianza: così, messo davanti a uno specchio deformante, l'homo Europaeus ci rimanda l'immagine menzognera dell'homo Occidentalis.
Esiste poi una variante "filosofica", chiamiamola pure così, della stessa volgarità: l'Odisseo che descrive a Penelope il letto matrimoniale ricavato dall'albero d'ulivo (il letto di Odisseo è in realtà il simbolo omerico dell'Axis Mundi) secondo Horkheimer e Adorno sarebbe, udite udite, il "prototipo del borghese (che) ha, nella sua smartness un hobby", quello del "fai da te". Gli autori della Dialettica dell'illuminismo, completamente ignari del significato autentico della figura dell'eroe omerico, hanno creduto di poter individuare, dietro la maschera di Odisseo, il volto del borghese occidentale che dà inizio allo sviluppo razionalistico liberandosi dalla superstizione ed esercitando il proprio dominio sulla natura e sugli uomini.
L'Odisseo dei rabbini francofortesi diventa così la metafora di quel potere razionale di dominio che si organizza come sapere sistematico e ha come soggetto il borghese occidentale, "nelle successive forme - essi scrivono - dello schiavista, del libero imprenditore, dell'amministratore".
Tale metafora si fonda però su una tipica riduzione del superiore all'inferiore, poiché Adorno e Horkheimer identificano indebitamente l'intelletto (principio d'ordine universale) con la ragione (facoltà specificamente umana, limitata, relativa e individuale). Ora Odisseo, prototipo dell'homo Europaeus, è propriamente un simbolo dell'intelletto, cioè del principio spirituale che trascende l'individualità e con essa l'insieme degli elementi psichici e corporei, rappresentati nel poema omerico dai compagni dell'eroe.
La vicenda della Scuola di Francoforte, nata per iniziativa di un gruppo di ebrei liberali, conclude il suo ciclo sfociando alla fine in una esplicita adesione al giudaismo. Poco prima di morire, Horkheimer raccomandò il "ritorno a Jahvè" e l'"eterna attesa" di un messia che, a detta dello stesso Horkheimer, non verrà mai. Questa posizione sarà ripresa e sviluppata dai cosiddetti nouveaux philosophes André Glucksmann e da Bernard Henri-Lévy.
Ora, per quanto riguarda l'irriducibilità dell'Odisseo omerico, prototipo dell'homo Europaeus, alla visione giudaica e alla visione moderna, ci sovvengono le parole di un autorevole esponente del pensiero giudaico-cristiano, Sergio Quinzio, il quale nelle Radici ebraiche del moderno afferma che non solo la concezione greca del tempo, ma anche la concezione greca dello spazio è circolare, dato che lo spazio odissiaco va da Itaca a Itaca. Il tempo e lo spazio dei Greci - scrive Quinzio - "sono il tempo e lo spazio dell'eterno ritorno, in cui nulla di realmente nuovo può accadere. Viceversa, come il tempo ebraico è lineare, così anche lo spazio ebraico è lineare, va dalla terra di schiavitù verso la terra della promessa".
D'altronde già Emmanuel Levinas aveva contrapposto nei termini di una irriducibile antitesi il ritorno odissiaco e l'esodo biblico, nonché le figure di Odisseo e di Abramo: l'Abramo della rappresentazione biblica, naturalmente, perché ben diversa è la figura del Profeta Ibrahim quale essa viene delineata nel Corano; il quale Corano respinge recisamente (ad es. in III, 60) la caratterizzazione ebraica e cristiana del Patriarca di Ur e fa di quest'ultimo un rappresentante della Tradizione Primordiale. "Al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca - scrive Levinas ne La traccia dell'altro - vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre perfino suo figlio a quel punto di partenza".
Evocando questo Abramo biblico e antiodissiaco, prototipo dei "padri pellegrini" che abbandonano l'Europa per stabilirsi sul continente occidentale, Levinas ha dato forma al contromito deldéraciné: una sorta di "contromito di fondazione" della Zivilisation occidentale, nella quale ha un peso rilevante quello che René Guénon chiama l' "aspetto 'malefico' e deviato del nomadismo". In ogni caso, Levinas ha avuto il merito di contrapporre esplicitamente al prototipo mitico dell'homo Europaeus il prototipo contromitico e antitradizionale dell'homo Occidentalis.
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A buon diritto, dunque, è stato detto che l'Odissea, assieme all'Iliade, costituisce quella che è stata chiamata la Bibbia dei Greci, così come l'Eneide sarà la Bibbia dei Romani. Se vogliamo usare un linguaggio coerente con questa metafora, dobbiamo dire che Omero è stato il primo profeta dell'Europa e che i suoi poemi hanno costituito la più antica rivelazione religiosa che abbia preso forma in mezzo agli Europei.
In una pagina piena di pathos nietzschiano, il grande filologo classico e storico delle religioni Walter Otto caratterizza la visione omerica contrapponendola implicitamente a quella giudaico-cristiana, nei termini seguenti:
"Omero divenne la Bibbia degli Elleni (...) Anche la sua rivelazione suonò grande, ma quanto più virile, più fedele alla vita, più rispettosa della realtà, che non il messaggio di spiriti sconvolti, in urto con se stessi e con la vita. La religione in cui il popolo doveva venire allevato era stata innanzi tutto rivelata al cuore dei più nobili e dei più gagliardi. (...) La religione di Omero era religione rivelata secondo l'opinione vera e umana che ogni grande pensiero sia figlio della divinità" (W. Otto, Spirito classico e mondo cristiano, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 25).
In uno scritto del 1931 che, indagando le scaturigini dello spirito europeo, individua nell'eredità omerica la prefigurazione della nostra stessa identità di Europei, Walter Otto dice ancora di Omero:
"Egli non è dunque solamente il maestro che ha creato in Europa la prima grande poesia, scrivendo così la legge vivente dell'arte poetica europea. Non è nemmeno solamente colui che è chiamato, capace di portare a espressione l'essere greco in modo così grande e profondo che la sua opera divenne il genio formativo dell'intera nazione. Egli è anche per noi, ancora, nonostante il mutare dei tempi, colui che mirabilmente annuncia la vita e il mondo. (...) Attraverso di lui, infatti, lo spirito greco e, con ciò, europeo ha trovato la sua prima espressione, rimasta valida fino ad oggi. E se comprendiamo nel modo giusto la sua parola, forse anche il significato della ricerca e della filosofia greca schiuderà per noi il suo significato più profondo" (W. Otto, Lo spirito europeo e la saggezza dell'Oriente, SEB, Milano 1997, p. 11).
Accanto ad Omero, l'altro grande maestro dell'antichità europea è Platone. Non a caso un altro filosofo ebreo e liberale, Karl Popper, ha assegnato a Platone il ruolo di capostipite spirituale della corrente dei "nemici della società aperta", una corrente che partirebbe dal pensiero platonico per arrivare fino ai totalitarismi del Novecento.
A parte Popper, la Repubblica di Platone è fondamentale, ai fini di un riconoscimento dell'originaria Weltanschauung europea, perché in tale opera noi troviamo chiaramente ed organicamente esposta quella dottrina della trifunzionalità che, secondo Georges Dumézil, costituì la caratteristica di tutte quante le società indoeuropee, sia in Europa, sia in Asia.
Come è noto, gli studi effettuati da Dumézil nell'ambito della storia delle religioni e della linguistica hanno mostrato che i popoli indoeuropei, al di là della parentela che unisce le loro lingue, possiedono una struttura mentale specifica e una concezione particolare del fatto religioso, della società, della sovranità, delle relazioni tra l'uomo e la Divinità. Insomma, Dumézil ha messo in luce una comune Weltanschauung indoeuropea, una visione del mondo avente implicazioni teologiche e politico-sociali, secondo la quale la comunità può vivere e prosperare solo grazie alla collaborazione e alla solidarietà delle tre funzioni di sovranità, forza e fecondità. La prima funzione (la sovranità) corrisponde al sacro, al potere e al diritto; la seconda (la forza) corrisponde all'attività guerriera; la terza (la fecondità) corrisponde alla produzione e alla distribuzione dei beni materiali.
Ora, se nella struttura religiosa e sociale messa in luce da Dumézil si manifesta un'esigenza fondamentale della più profonda mentalità indoeuropea; se la cosiddetta "ideologia trifunzionale" è una caratteristica inerente alla mentalità dell'Europeo; se essa è una di quelle strutture latenti che sono indissociabili dallo spirito e dalla cultura di un popolo e si conservano in qualche modo attraverso le generazioni, tant'è vero che ancora nel Medioevo le componenti della società venivano indicate nelle tre categorie degli oratores, bellatores e laboratores e tale tripartizione sopravvisse in qualche modo fino alla Rivoluzione Francese - allora è lecito porci questo interrogativo: in quale misura la concezione trifunzionale può rappresentare una via per ripensare il mondo e la vita in termini adeguati alla nostra qualità di Europei?
Su tale interrogativo non sarà superfluo riflettere seriamente.
Per il momento, sarà sufficiente notare che l'organizzazione liberalcapitalista della società è tipica non della civiltà europea, ma della civiltà occidentale. Il motto di tale organizzazione potrebbe essere la frase proverbiale che circola negli Stati Uniti: Whatever is good for General Motors is also good for the USA.
Infatti il liberalcapitalismo, nato dalla Rivoluzione Francese con la ribellione della terza funzione, il Terzo Stato, contro le altre due, da una parte rappresenta il potere effettivo dell'elemento economico su quello politico e su quello militare, mentre dall'altra comporta una penetrazione della mentalità mercantile in tutti gli strati della società.
Una società normale, invece, è quella in cui a governare è la funzione sovrana; una società normale è quella in cui il politico prevale sull'economico.
Lo stesso concetto di Europa va rivisto alla luce dell'ideologia trifunzionale. Al di là delle semplici relazioni commerciali (terza funzione), al di là degli stessi problemi della difesa comune (seconda funzione), l'Europa deve affrontare la questione principale, che è quella della sua sovranità (prima funzione).
Questo progetto può trarre alimento da una sola fonte: dalla nostra tradizione più autentica.
Nel 1935 Martin Heidegger diceva dei Tedeschi quello che oggi si potrebbe dire degli Europei in generale:
"Questo popolo potrà foggiarsi un destino solo se sarà prima capace di provocare in se stesso una risonanza (...) e se saprà comprendere la sua tradizione in maniera creatrice. (...) E se la grande decisione concernente l'Europa non deve verificarsi nel senso dell'annientamento, potrà solo verificarsi per via del dispiegarsi, a partire da questo centro, di nuove forze storiche spirituali".
In altri termini: se l'Europa ha ancora un futuro e se noi vogliamo trovare una soluzione europea per il suo futuro, dobbiamo rivolgerci verso le nostre origini, interrogare i maestri più antichi nella nostra cultura e - crediamo di poter aggiungere - prendere le mosse da quelle idee che costituiscono l'eredità spirituale specificamente europea.
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Qualcuno potrebbe obiettare che il punto di vista del succitato Walter Otto, riassumibile in una formula del tipo "La Weltanschauung omerica ossia l'Europa", deve essere aggiornato e sostituito da quello che troviamo sintetizzato nel celebre titolo di Novalis, La cristianità ossia l'Europa.
In ogni caso, il corollario di tali formule, che si richiamano entrambe all'Europa, potrebbe essere: "La modernità ossia l'Occidente". Infatti, come ci ricorda Franco Cardini in Noi e l'Islam, "il concetto di Occidente è relativamente nuovo e sembra di per sé inscindibile da quello della modernità".
Fino a che punto dunque sono giustificati i consueti tentativi di individuare le radici dell'Occidente in alcune delle fasi storico-culturali in cui si è venuta configurando l'Europa, vale a dire nell'antica Grecia, nel mondo romano o nella Cristianità latino-germanica?
Se la modernità è "disincanto del mondo", è quanto meno azzardato presentare come antesignana della modernità la cultura greca, una cultura che non produsse soltanto anticipazioni del pensiero moderno quali il razionalismo sofistico e il meccanicismo atomistico, ma si espresse anche (e senza dubbio in maggior misura e con maggiore intensità) nei Misteri orfici ed eleusini, nella teologia della storia di Erodoto, nella metafisica dei Presocratici, di Platone e di Aristotele, nella poesia teologica di Eschilo e di Pindaro, nella teurgia e nella mistica dei neoplatonici.
Né è chiaro in base a quale logica l'Occidente dovrebbe richiamarsi alla civiltà romana, che in realtà si fonda proprio su quanto vi è di più scandaloso dal punto di vista della modernità, ossia sull'identificazione dell'ambito religioso con quello giuridico e politico. Una identificazione che ritroviamo se mai nell'Islam, non certo nella civiltà occidentale.
Se in quanto visione del mondo l'Occidente è sinonimo di modernità ed è quindi essenzialmente altro rispetto allo spirito che presiedette alle manifestazioni della civiltà europea nell'antichità e nel Medioevo, anche in quanto elemento del simbolismo geografico l'Occidente si contrappone all'Europa in maniera radicale.
Qui deve essere posta in evidenza una realtà elementare, che la cultura diventata egemone nella seconda metà del Novecento ha fatto di tutto per oscurare. E' sufficiente osservare un qualunque atlante geografico per rendersi conto che l'Occidente del planisfero terrestre coincide con il continente americano e con le acque oceaniche che lo circondano. L'Europa non è Occidente, perché si trova nell'emisfero orientale ed è parte integrante di quell'unità continentale che si chiama l'Eurasia. Anzi, se l'Europa ha un rapporto di continuità o di contatto naturale con altre parti del mondo, queste non sono le Americhe, ma l'Asia e l'Africa. Tutto ciò, pur senza dirlo, lo stesso Cardini ci induce a pensarlo allorché pone un interrogativo di questo genere: "Ma l'equatore è davvero una linea divisoria anche in termini di cultura e di economia - e di potere - più netta del meridiano atlantico che separa il continente europeo da quello americano?".
La tesi della localizzazione occidentale del nostro continente è d'altronde smentita dalla configurazione geografica di quelle costruzioni imperiali che hanno unificato più o meno vaste porzioni dello spazio europeo. Gli imperi di Alessandro, di Roma, di Bisanzio, degli Ottomani furono grandi sintesi eurasiatiche e mediterranee. Anche il Sacro Romano Impero sembrò recuperare una dimensione di questo genere, quando, con Federico II di Svevia, la corte imperiale si trasferì a Palermo e l'Imperatore estese la sua autorità su Gerusalemme e altri luoghi della Palestina. La stessa Germania, che in quanto immagine storica dell'Impero medioevale è rimasta fino al 1945 das Reich, "l'Impero", ha sempre cercato il proprio spazio ad oriente.
Indipendentemente dall'estensione spaziale che hanno effettivamente interessata e dalla durata temporale degli effetti che ne sono derivati, tutte le azioni politiche che hanno mirato a unificare il continente hanno contribuito a consolidare il tessuto euroasiatico, al di là delle lacerazioni politiche, delle differenze etniche e delle contrapposizioni culturali.
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Se è vero che i miti implicano una serie di significati sopraordinati a quello letterale, non dovrebbe essere illegittimo ricercare, in quel diffuso tipo mitico che ci racconta lo smembramento di un dio (Prajââ`pati, Osiride, Zagreus ecc.) e la successiva origine del cosmo dalle sue membra sparse, un significato concernente l'origine della geografia terrestre. Che cos'è infatti il complesso delle terre emerse, se non un corpo, distinto in quelle quattro o cinque parti che siamo soliti chiamare continenti?
Cerchiamo innanzitutto di fissare il numero di questi ultimi, perché è possibile contarne quattro (Eurasia, Africa, Oceania, America) oppure cinque (Eurasia, Africa, Oceania, America settentrionale, America meridionale). A seconda del loro numero, potremo applicare alla geografia del nostro pianeta un'analogia oppure un'altra. Ad uno schema quaternario, infatti, si adatterà il simbolismo dei quattro elementi costitutivi del cosmo (aria, acqua, fuoco, terra), mentre l'asse terrestre corrisponderà all'elemento invisibile e centrale, la quinta essentia, l'etere.
Ad uno schema quinario, invece, sarà possibile applicare il simbolismo del corpo umano. In tal caso, se pensiamo ai cinque continenti come alle parti di un corpo analogo a quello dell'essere umano, potremo dire che l'Eurasia costituisce la parte centrale ed essenziale, quella che comprende il capo ed il busto e quindi alberga entro di sé il cuore, il cervello e tutti gli altri organi vitali, mentre gli altri quattro continenti (l'Africa, l'Oceania e le due Americhe) rappresentano le quattro estremità del corpo.
Tutte le regioni più importanti dal punto di vista dell'economia spirituale, infatti, si trovano concentrate nell'Eurasia. Si sono irradiate da centri euroasiatici quelle influenze tradizionali che hanno raggiunto poi il resto del pianeta: dallo sciamanesimo siberiano più arcaico, che attraverso migrazioni protostoriche si è diffuso nelle due Americhe, fino a quella rivelazione coranica che ha sigillato il ciclo tradizionale della presente umanità e si è diffusa anch'essa ben oltre i limiti dell'Eurasia. E questo per citare solo due, la più antica e la più recente, tra le forme tradizionali che si sono originariamente manifestate sul suolo euroasiatico.
Ma voglio concludere proponendo alla vostra meditazione un altro mito, dal quale emerge tutta l'inanità del concetto di Occidente inteso come realtà a sé stante, mentre ne risulta ulteriormente evidenziata la conformità dell'idea di Impero allo spazio eurasiatico.
Si tratta del mito di Alessandro e in particolare della caratterizzazione che ne è stata fatta dalla tradizione islamica, la quale nella coranica Sura della Caverna assegna al "Bicorne" una funzione non solo imperiale, ma anche escatologica. Secondo il simbolismo posto in risalto da questo specifico contesto tradizionale, la marcia compiuta da Alessandro Magno lungo la direttrice ovest-est dell'Eurasia traduce sul piano geografico quella modalità "espansiva" che la dottrina islamica chiama "ampiezza". Ora, "ampiezza" ed "esaltazione" sono due termini che corrispondono alle due fasi del Viaggio Notturno del Profeta Muhammad, paradigma del percorso iniziatico che giunge alla realizzazione suprema.
E' stato detto infatti da Fadlall`h al-Hindî: "Sia l'esaltazione sia l'ampiezza hanno raggiunto la loro perfezione nel Profeta, che Iddio lo benedica e gli dia pace". Ma qui bisogna aggiungere che, secondo un detto tradizionale del Profeta stesso, Alessandro è stato tra tutti gli uomini il più simile a lui.
Questo perché Alessandro non solo percorse la terra nella sua estensione orizzontale, da ovest ad est, ma anche perché, secondo un altro detto attribuito al Messo di Dio, dopo la fondazione di Alessandria d'Egitto il Macedone venne innalzato in cielo da un angelo. D'altronde, le storie concernenti la discesa di Alessandro in fondo al mare e la sua ascensione celeste fino alla sfera del fuoco hanno avuto ampia diffusione sia in Oriente sia nell'Europa medioevale.
In questo modo, la figura di Alessandro può essere riferita, per i significati che ad essa si collegano, a una dottrina integrale del Sacro Impero, perché egli, avendo sviluppato ogni sua possibilità secondo i due sensi orizzontale e verticale, è al contempo detentore della regalità e del sacerdozio, è simultaneamente rex e pontifex. E la sua figura si colloca sullo sfondo dello spazio euroasiatico, che costituisce non solo lo scenario storico, ma la proiezione spaziale stessa corrispondente all'idea di Impero.