Darya Dugina, la Filosofia come destino

Darya Dugina, la Filosofia come destino

La vita come “modo intelligente di fare le cose”

La vita nel mondo di oggi presuppone e addirittura richiede un enorme sforzo da parte nostra, non solo nelle questioni mondane e nei movimenti esteriori. Richiede soprattutto uno sforzo della mente, del pensiero – uno sforzo mentale, un “fare mentale” come veniva chiamato nella tradizione monastica dei “santi padri”, w questa prassi della Mente è necessaria non solo per fare una “distinzione”, diacrisis, come dicevano i platonici greci, per distinguere l’uno dall’altro – il prezioso dal non prezioso, il bene dal male, il casuale dal fatale, ma per qualcosa di molto più grande e significativo… Viviamo in un mondo danneggiato, contorto, in una civiltà distrutta la cui spina dorsale è spezzata, così come la sua percezione di superiorità verticale e gerarchica. È necessario uno sforzo intelligente per ripristinare le proporzioni di questo mondo gerarchico intelligente, il cui modello è stato creato da Platone, ed è appunto il platonismo.

L’imperativo del platonismo

Daria Dugina scelse lo pseudonimo di Platonov e si dedicò allo studio del platonismo e dei filosofi platonici. Un tempo l’americano A. Whitehead disse che l’intera filosofia mondiale non è altro che note a margine di Platone. Impegnandoci nel platonismo – arriviamo al centro del tifone, al cuore del problema della generazione dei significati, della creazione delle strutture di pensiero, della mente, della storia, delle culture, delle civiltà… Dasha lo sapeva e ha scelto deliberatamente questa strada. La via della Mente è pericolosa. Le persone temono la mente come il fuoco.  Un tempo, le autorità cittadine di Atene fecero giustiziare il pensatore più saggio della Grecia e dell’umanità intera, Socrate; gli abitanti di Alessandria assassinarono la filosofa neoplatonica Ipazia. Oggi le élite del mondo occidentale odiano il libero pensiero in modo feroce e totalitario. Uccidono e intendono uccidere i pensatori, i filosofi, i saggi, i profeti, i geni – tutti coloro che non pensano al destino dell’umanità all’unisono con il gruppo di cattivi che si sono impadroniti del discorso globale moderno, che stanno per spegnere del tutto il progetto Uomo, trasformandolo in un clone, in un computer, in un’informazione nella nuvola. Daria Dugina sapeva che questo oscurantismo ragionato doveva essere contrastato innanzitutto dalla Mente: pensiero, idea, concetto, disegno, progetto. Ha scelto il platonismo come fulcro di questa lotta.

La struttura a due piani del platonismo

Platone creò un mondo intelligente e coerente a due piani, in cui le idee, i modelli, le forme delle cose e gli eventi del mondo fluttuavano nel piano superiore, mentre nel piano inferiore dimoravano la materia e le cose stesse, che esistevano contemplando le idee-Logos e imitandole come loro modelli celesti. Così fu costruita la gerarchia del Cielo e della Terra, una gerarchia di idee alla cui testa brillava l’idea del Bene, o dell’Uno: l’inesprimibile, l’inesprimibile, al di là di tutto ciò che poteva o non poteva essere pensato. Il platonismo descriveva una struttura intellettuale e intelligente del mondo, aperta dall’alto. Poneva l’uomo al centro di una gerarchia verticale come una sorta di mediatore tra i mondi. Contemplando le idee, l’uomo ha fatto in modo che il mondo fosse costruito e le cose fossero prodotte, riecheggiando gli archetipi celesti. Questo modello di mondo esiste da millenni. Le sue strutture, le gerarchie, le scale di ascesa e discesa si riflettono in tutte le religioni del mondo. L’uomo in essa è un “essere che sale” (verso lo Spirito, il Bene, la Verità, la Bellezza, la Giustizia, l’Uno), e talvolta ritorna (il Mito della Caverna di Platone) e sale di nuovo sulla scala di Giacobbe, la scala della perfezione spirituale. Questa ascesa dell’uomo, la sua perfezione, la sua transustanziazione, è l’obiettivo della vita.

Il divenire e il lato oscuro della libertà

Tuttavia, il mondo si deteriora col tempo, l’uomo diventa stolto. In un modo o nell’altro è arrivato il Moderno e poi il Postmoderno, che in parte è quello in cui ci troviamo oggi. Il postmodernista francese del XX secolo Gilles Deleuze falsifica Platone – solo a margine dei suoi scritti – distorcendo fondamentalmente l’immagine platonica del mondo. Deleuze sostiene che il platonismo non parlava del dualismo tra idee e materia, ma della dualità della materia stessa: quella che accoglie le idee, cioè le copie, e quella che evita del tutto l’influenza delle idee, si nasconde da esse, sfugge all’influenza del modello intelligente, il Logos. Nel mondo, ci dice il nostro più popolare filosofo occidentale, ci sono cose che scivolano via, evitando qualsiasi forma, qualsiasi definizione. Questo lo chiama “puro divenire”, “infinito”, “ombra della copia”, “copia senza l’originale” o “simulacro”. Secondo Deleuze, tali cose e persone indefinibili, che sfuggono all’idea, al Logos, non sono completamente prive di misura, ma questa misura non è al di sopra, ma al di sotto di esse, nel sottosuolo della loro esistenza. Non rimangono all’ombra dell’Unico Creatore, dei più alti significati celesti, ma sotto l’incantesimo, l’ipnosi di un elemento folle che vive al di sotto di quell’ordine che nell’universo platonico le cose ricevono dal Logos, il mondo della Mente e delle idee.

I due mondi di Deleuze: copie e simulacri

Così Deleuze stabilisce due mondi: uno governato dalla Mente mondana, che riceve modelli e forme dalle sfere celesti e questo mondo appare a Deleuze come decrepito, non libero, non dinamico, totalitario. È il mondo di una realtà fissa, di una certezza fissa, e quindi il mondo delle “pause” e delle “fermate”, con un linguaggio maldestro per descriverlo, per parlarne.

Il secondo mondo, nuovo e bello, viene in aiuto del vecchio, portando con sé significati fluenti, un elemento fluente e leggero del flusso e un “divenire ribelle” senza soste e pause.

Attraverso l’immobilità e la rigidità del vecchio mondo gerarchico delle idee e delle cose (non è difficile intuire che si tratta del mondo platonico dei doppi argomenti), appare, come un fantasma, il secondo mondo di Deleuze, il mondo del divenire paradossale, Dove tutto è fluido al punto che i significati di passato e futuro sono identici, dove il prima e il dopo, il più e il meno, la causa e l’effetto, l’eccesso e la carenza, il crimine e la punizione si fondono in un’inspiegabile concordia e inter-trasformazione. Entriamo in un mondo senza limiti che vengono trasgrediti – da qui il mondo del crimine, dell’illegalità. È un mondo di reciproca reversibilità degli eventi, cioè un luogo in cui la ragione è problematizzata. A Deleuze piace l’idea che accanto alle cose e agli esseri formalizzati ci siano eventi indeterminati e che sulla loro superficie si agitino eventi ancora più piccoli, che lui chiama “effetti”. Gli effetti sono fluidi, leggeri, non fondati, arbitrari, spontanei.

L’uomo come “evento”

“Che cos’è una ferita sulla superficie del corpo?”, si domanda Deleuze. È una cosa densa con un proprio status? È un effetto, un piccolo evento che “non esiste nemmeno, ma persiste solo per un po’ nella sua manifestazione”, diventa, possiede un minimo di essere.

Che cosa siamo noi stessi? La vita umana, compreso il nostro io, il nostro vertice interiore, che veneriamo come soggetto, il nostro mondo, il nostro sogno, suggerisce Deleuze, non è forse solo un cieco agitarsi sulla superficie di qualche evento? Siamo solo un leggero scricchiolio sulla superficie dell’essere. Un fruscio di carta, una specie di nebbia che si muove ai bordi delle cose.

Che cos’è il rossore del ferro, il rossore del viso?, chiede Deleuze. È una miscela di rossi e verdi. Anche noi siamo miscele, che si mescolano, nel bene e nel male, con le cose.

Il “mondo degli effetti” di Deleuze si mescola e si diffonde. In esso ci muoviamo in un Eone infinito del divenire.

Non c’è un Tutto al mondo”, sostiene il maestro della retorica francese, “che ordini e sia responsabile della metamorfosi delle cose e di noi stessi.  Non c’è ragione al mondo. Ciò che ci viene richiesto non è di essere, ma di scivolare.

Caosmos

Il mondo di Deleuze è un viaggio verso il Caosmos, con la perdita dei nomi e la negazione di ogni permanenza, compreso il sapere (perché “la permanenza ha bisogno di pace e di Dio”, come nota Deleuze, “e noi non possiamo darvi questo”). È un universo senza verticalità, dove il simbolo dell’albero come asse verticale e gerarchia è sostituito dall’immagine di un rizoma, un tubero come una patata, che germoglia casualmente e inconsapevolmente di lato, di fianco, in basso, a volte anche in alto. Questo è il mondo dell’infinito, l’apeiron (ἄπειρον) – quello che gli antichi greci odiavano particolarmente, in contrapposizione al limite, il peras (πέρας), che completava, fissava la cosa.

Il divenire deleuziano implica una fusione del linguaggio, dove i nomi vengono spazzati via dai verbi come entità più fluide, e dove nel divenire tutto si dissolve e scompare. L’attuale mondo del divenire di Deleuze è il mondo del linguaggio che si disintegra e muta nel processo di questa disintegrazione. Poiché il denotativo è abolito ancor prima della filosofia di Deleuze, nello strutturalismo di F. de Saussure, da cui Deleuze si allontana, la realtà si trasforma in lui in una residualità puramente linguistica, in cui il tessuto semantico, il campo di senso dell’essere, si dissolve e si spegne, coinvolgendo in questa estinzione l’Uomo come proprietario e gestore del linguaggio. Acquisito nel puro divenire, il post-linguaggio si trasforma in un muggito inspiegabile — in un lampo di “effetto” sulla superficie della levigatezza fusa della materia che collassa in profondità infernali. Daria Dugina ha dedicato a Deleuze il suo saggio “Black Deleuze” e ha spesso fatto riferimento a lui e alla sua filosofia nei suoi discorsi, interventi e conferenze.

Le cose predatorie e il soggetto vuoto Ltd

Il programma di dissoluzione dell’uomo, di destabilizzazione e di dissoluzione del mondo stesso viene oggi elaborato non solo nei programmi stravaganti e perversi della scuola di Deleuze, ma anche nei gruppi filosofici post-deleziani dei “realisti iper-materialisti” o “ontologi orientati agli oggetti” (OOO) occidentali contemporanei, come R. Negarestani, N. Land, G. Harman, R. Brassier, C. Meyasu e altri. Questi filosofi ci spiegano che l’uomo, nella filosofia classica occidentale, ci appare ingiustificatamente come troppo retto, autoritario, arrogante e moralista. Tuttavia, rispetto all’intelligenza artificiale, ad esempio, è assolutamente imperfetta e ingestibile. È quindi inutile e pericoloso continuare ad assecondare l’uomo nella sua illusione di essere l’amministratore dell’universo e l’artefice del progresso sociale. L’uomo è troppo oppresso dal Logos. Perché siamo così sicuri, chiedono i rappresentanti delle OO, che l’uomo sia la misura delle cose, il polo principale della correlazione? C’è il Nulla e la sua circolarità, che si chiama “divenire”. D’ora in poi il mondo dell’essere precedentemente chiamato “uomo” è caratterizzato da indeterminatezza, sfocatura, fluidità, “permeabilità”, caoticità, e questo riguarda non solo gli eventi della sua vita, ma anche lo stato del suo io fragile e instabile.

Ma ciò che è veramente solido e affidabile nel mondo sono oggetti cosmici, semplici cose, la Terra, il suo nucleo, compresso nella prigione di una crosta ghiacciata. Gli oggetti, sebbene fenomenologicamente indimostrabili, sono anche praticamente raggiungibili: se solo estinguiamo il nostro Dasein umano, ci si riveleranno in modo del tutto inaspettato, molto probabilmente come mostri, secondo Graham Harman del Weird Realism. Mentre la nostra presenza umana è ancora persistente, i noomen sono irraggiungibili. Essi (i noomen, le cose) vivono in modo radicalmente esteriore (infernale), inaccessibile a noi, e molto probabilmente piuttosto predatorio, e noi ne approfittiamo, considerandoci ingenuamente i loro padroni e padroncini, ma c’è una grande ribellione delle cose che verranno, come ha detto Bruno Latour. L’uomo non è nulla, con tutte le sue effimere pretese, capacità, progetti e illusioni; gli oggetti devono essere liberati dall’uomo, lasciati liberi di creare, di seguire i propri percorsi e traiettorie cosmiche; l’uomo deve essere rimosso dal percorso del nucleo terrestre, ad esempio, per liberare il demone nucleare all’interno della Terra, in modo che questa calda e incandescente essenza solare possa unirsi in una danza cosmica con il Sole – è quanto ci dice il filosofo americano di origine iraniana Reza Negarestani, riprendendo il filosofo inglese Nick Land.

Daria Dugina ha studiato molto attentamente i testi degli ontologi contemporanei orientati agli oggetti, polemizzando con loro in articoli e discorsi. C’è stato anche un curioso incidente. Una volta Daria ha partecipato a una presentazione on-line del libro di Negarestani a Mosca. Questo caso è diventato molto noto perché nel bel mezzo di una discussione intellettuale uno degli ammiratori di Dasha le ha chiesto la mano e il cuore. Daria promette gentilmente di prendere in considerazione questa proposta, ma solo dopo che il pretendente di idee conservatrici-tradizionaliste riuscirà a padroneggiare la filosofia opposta alla sua e imparerà a memoria la Ciclonopedia di R. Negarestani.

Attacco alle superfici

Il tema dell’insolvenza e della vanità dell’uomo nei rappresentanti, come abbiamo mostrato, si sincronizza con quello della dissoluzione dell’uomo in Deleuze, il filosofo sottile, in cui si proclama la vera volontà non per le cose e gli enormi corpi e oggetti cosmici, ma per i deboli effetti sulla superficie di tutte queste proprietà. Raccogliendo il panorama della filosofia occidentale moderna, vediamo davanti a noi i diversi fianchi di un unico fronte che attacca la nostra tradizione spirituale – platonica, cristiana, tradizionale. In questa invasione della filosofia occidentale moderna su di noi non ci sono verticali, né gerarchie, né forme, né idee, né valori, né oggetti, né essenze, né cause, né qualità, né schemi, né obiettivi, né linguaggio, né profondità, né altezza, né libertà, né spirito, né Dio. Non c’è posto nemmeno per l’uomo. A cui viene ordinato di non andare in profondità, di non guardare in alto e lontano, di non sognare, di non proiettarsi, di non pensare, ma di scivolare e dissolversi, di frusciare e di non pensare troppo a se stesso. Ci viene comandato, persino ordinato, di rimanere sulla superficie delle cose, di scivolare lungo la superficie degli eventi, di seguire le tendenze, di seguire le agende.

Guerra d’ingegno

Ho detto “ci viene comandato”!  Sì, proprio così! Dietro il morbido fruscio del discorso scatenato di Deleuze, noi tradizionalisti sentiamo il pesante calpestio dell’imperativo totalitario. Questo non significa forse che c’è qualcuno nel mondo che capisce quali regole ci vengono offerte, e che nel mondo non ci sono ordini di cose in sé, ma ordini di interpretazioni? Con il pretesto di un gioco filosofico apparentemente casuale, ci vengono imposti dei requisiti alle cose e a noi stessi, quindi dei principi e delle regole con cui qualcuno ci incolla a determinati standard di percezione e comportamento?  Sì, è proprio così, e i nostri avversari intellettuali in Occidente lo capiscono. Come la legge cardinale della geopolitica afferma che “Chi controlla l’Heartland (l’Eurasia) possiede il mondo”, così qui la formula funziona: “Chi controlla il discorso, stabilisce il meta-linguaggio, comanda su tutto”.

I paradigmi – le chiavi delle visioni del mondo, delle civiltà e delle culture – sono conosciuti in Occidente? I codici della storia e del futuro dell’umanità?  Sì, senza dubbio. Ma non hanno fretta di condividere questa conoscenza nemmeno con i “loro”, per non parlare di coloro che sono ovviamente classificati tra il gregge epistemologico.

In Russia, la risposta a questa domanda è offerta dal tradizionalismo russo, che è la scelta di tutta la nostra famiglia, a partire dal suo capo. Il padre di Daria Dugina ha dedicato la sua serie di opere in 24 volumi, Noomachia, allo studio del Logos delle civiltà, ai paradigmi della storia umana. E Daria ci è cresciuta, assimilando fin da piccola il gusto per la Tradizione e le ontologie verticali. Daria è nata e cresciuta in una famiglia di filosofi di cui era ed è tuttora parte organica e integrante. È un’eterna stella nascente del pensiero russo. Tutti gli interrogativi più acuti lanciati dalla modernità tossica e dalla postmodernità del tramonto occidentale trovano risposta nei grandi tradizionalisti del Novecento: René Guénon, Julius Evola, Mircea Eliade, Ernst Jünger, Lucian Blaga, Emile Cioran, Louis Dumont, Georges Dumezil, Alain de Benoit e decine di altri raffinati pensatori.

Considerava i tradizionalisti come quei pionieri della Mente nella storia del XX secolo, che hanno cercato di comprendere il naufragio della nave dell’umanità come una transizione dal paradigma spirituale della Tradizione (Antichità, Medioevo e Rinascimento) al paradigma materialistico, individualistico e antigerarchico dell’Età Moderna, e poi al paradigma in erosione dell’Età Moderna che è l’Età Postmoderna.

Mia figlia, Daria Platonova Dugina, era profondamente interessata a tutti questi argomenti.  A loro ha dedicato articoli, relazioni, testi, frammenti della sua tesi di laurea incompiuta. Nel prossimo futuro, spero di pubblicare un libro con i suoi testi filosofici e storico-filosofici (relazioni, articoli, estratti) [N.d.T.: il testo è già stato programmato anche per l’edizione italiana].

Daria ha seguito i suoi genitori tradizionalisti che, a loro volta, hanno dedicato tutta la loro vita all’analisi, alla traduzione, all’esposizione, all’insegnamento delle dottrine tradizionaliste e alla loro interpolazione in vari campi delle scienze umane – filosofia, sociologia, scienze politiche, storia della filosofia, scienza, arte, teoria delle relazioni internazionali, ecc.

Il mio riferimento alle due tendenze intellettuali della modernità – il deleuzianesimo e le ontologie orientate agli oggetti – non è casuale. Come si è detto, la nostra condizione attuale richiede un solido sforzo mentale: non solo un atto mentale distaccato di decifrazione e attualizzazione del paesaggio intellettuale della modernità, ma una penetrazione determinata, profonda, direi iniziatica, nell’essenza della lotta intellettuale contemporanea. È una lotta, un confronto di menti nel mondo contemporaneo, una vera e propria battaglia o “Guerra delle menti”, “Noomachia”, come l’ha definita Alexander Dugin. La cosa più sorprendente e inaspettata per l’osservatore superficiale è che questa guerra è piena di battaglie, scontri, battaglie perse e vinte, fornite con intelligenza intellettuale, manovre ingannevoli, lavaggio del cervello e disinformazione intellettuale. Oggi, nella retorica ufficiale della scienza politica, si parla di “guerre mentali”, cioè della stessa “guerra della mente”, la guerra dello spirito.

Quindi, i nostri nemici in questa guerra della mente conoscono molto bene il prezzo di un pensiero, il prezzo di un’idea, il prezzo di un progetto. Lo sa bene anche Arthur Rimbaud, che diceva che «la battaglia spirituale è feroce come le battaglie di un esercito».

Noi, filosofi della tradizione, filosofi tradizionalisti, che abbiamo saputo discernere la strategia del mondo moderno e riconoscere i paradigmi del Moderno e del Postmoderno che ci sono estranei, partecipiamo a questa feroce battaglia. Ci sono imposte dalla civiltà occidentale moderna, con i suoi particolari percorsi storici, con i suoi principi e valori: liberalismo, individualismo, anti-gerarchia, materialismo. Questi principi non sono innocui. In definitiva, sono disumane e, in un modo o nell’altro, portano alla distruzione dell’uomo e alla cancellazione dell’umanità dal Libro della Vita.

Daria Dugina era all’avanguardia nella guerra dell’ingegno, sulla “frontiera” intellettuale, come le piaceva dire, nello spazio delle battaglie di paradigmi, idee, civiltà; era un vero cavaliere del fronte intellettuale, un vero “guardiano-filosofo”, come Platone chiamava i filosofi, perché custodivano la cosa più alta che l’uomo ha: la sua dignità intellettuale, il suo diritto alla libertà, al pensiero, alla protezione dei più alti valori umani, ad accedere, salendo la scala della contemplazione dei più alti principi, all’intero volume di ciò che nel platonismo si chiama Verità, Bene, Giustizia, Bellezza, Bontà.

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini