INTRODUZIONE A NOOMACHÌA. LEZIONE 8. ANALISI NOOLOGICA DELLA MODERNITÀ
Schede primarie
Questa ottava lezione [1] sarà dedicata all’analisi noologica e geosofica della Modernità.
1. La Modernità come fenomeno paradigmatico
Anzitutto, occorre chiarire la natura di questo fenomeno. A tal proposito, suggerisco la lettura degli autori che hanno dato vita alla scuola tradizionalista; mi riferisco in particolare a Julius Evola, René Guénon, Frithjof Schuon, Titus Burckhardt, Michel Vâlsan, S.H. Nasr. Essi hanno spiegato come la Modernità corrisponda ad un particolare concetto paradigmatico che non ha nulla a che vedere con la nozione di contemporaneità. Oggi, in questo preciso momento, potremmo infatti imbatterci in una società moderna o postmoderna come pure in una premoderna, arcaica o medioevale, e così via. Contemporaneo pertanto non equivale a moderno. Questo è un punto molto importante. Quando parliamo della Modernità, non stiamo descrivendo l’attuale stato delle cose, ma stiamo parlando di uno specifico tipo di società, di struttura, di orizzonte esistenziale, di civiltà, che è piuttosto atemporale e che è il frutto di una decisione. Non dobbiamo quindi considerare la Modernità come un qualcosa di fatale, per cui siamo in qualche modo obbligati a modernizzarci. I tradizionalisti affermano al contrario che essere moderni è la conseguenza di una scelta. Si può decidere di essere moderni ma si può anche decidere di non esserlo. In merito a ciò, essi introducono due concetti tra loro opposti e corrispondenti a due tipologie diverse di società o visione del mondo: la Tradizione e la Modernità. Questo quadro concettuale è di cruciale importanza perché ci dà la possibilità di studiare la Modernità non come un qualcosa di inevitabile, ma come il prodotto di un peculiare sviluppo storico basato su una concreta sequenza di decisioni e scelte. La Modernità è un fenomeno paradigmatico artificiale; non è qualcosa di fatale, che è venuto da sé, naturalmente, ma al contrario è stata creata, sostenuta, difesa e sviluppata attivamente. E siamo in grado di affermarlo perché conosciamo molte altre società che non sono moderne – ad esempio le società arcaiche o alcune società contemporanee come la società islamica o per alcuni versi la società indiana. In effetti, la maggior parte dell’umanità ad oggi, nel XXI secolo, non vive affatto in una società moderna. Ecco perché dovremmo studiare la Modernità considerandola separatamente dalla contemporaneità.
Possiamo parlare di una «struttura» della Modernità. La Modernità è qualcosa di strutturale, e così come è stata artificialmente costruita, può essere decostruita. I filosofi postmoderni si basano precisamente su questo concetto, sulla decostruzione della Modernità. Ma la decostruzione della Modernità – e questo è un punto fondamentale nella Noologia – può essere effettuata partendo da due posizioni diverse.
Un primo modo di decostruire la Modernità è di farlo dal punto di vista postmodernista. La maggior parte dei postmodernisti è insoddisfatta della Modernità poiché a loro avviso quest’ultima non ha pienamente realizzato le sue promesse iniziali di superare completamente la Tradizione, per cui essi cercano di decostruire la Modernità con la loro etica iper-modernista, al fine di raggiungere gli scopi prefissati dalla Modernità ma che essa, a causa dei suoi limiti interni, non è riuscita a conseguire. Possiamo dire che agli occhi dei postmodernisti la Modernità è «troppo tradizionale» per poter superare completamente la Tradizione, come invece avrebbe dovuto essere e come la Postmodernità si appresterebbe a fare. La decostruzione della Modernità operata dai postmodernisti è dunque finalizzata a mostrare come essa non sia «sufficientemente moderna», come essa non abbia raggiunto quel livello di modernizzazione necessario agli occhi dell’etica postmodernista. Ma è interessante come, nel fare ciò, in questo atto decostruttivo, essi rivelino la natura artificiale della Modernità; in effetti, si può decostruire solo qualcosa che è stato precedentemente costruito.
Vi è poi un secondo modo in cui è possibile decostruire la Modernità. Un modo ben più radicale della critica postmodernista. Mi riferisco al tradizionalismo, che considera la Modernità come anti-Tradizione, cioè come una struttura basata fondamentalmente sulla negazione della Tradizione. Essa rappresenta l’inversione di tutti i valori tradizionali, la volontà di capovolgere, sovvertire lo stato di cose tradizionale, di sostituire la tesi con l’antitesi. Questa è la posizione dei tradizionalisti. Se i postmodernisti concordano con gli obiettivi della Modernità e la criticano giudicandola non adeguata a perseguirli completamente, i tradizionalisti al contrario ritengono la Modernità qualcosa di completamente negativo: un nichilismo, una perversione, una sovversione, un progetto demoniaco, il regno dell’Anticristo edificato dai consapevoli seguaci di Satana. La Modernità, agli occhi dei tradizionalisti, è un’intenzionale costruzione satanica, un ordine demoniaco basato sulla sovversione dell’ordine sacro, del mondo sacro della Tradizione.
Nel trattare la Modernità, possiamo fare uso di entrambi questi metodi di decostruzione. Possiamo decostruire la Modernità dalla prospettiva postmodernista, con la sua elaborata metodologia, oppure dal punto di vista tradizionalista. Ora non mi interessa dare giudizi di valore su questi metodi; voglio mostrare l’esistenza di due possibili modi di trattare la Modernità al di fuori delle pretese della Modernità stessa. La Modernità afferma la necessità e l’inevitabilità delle sue stesse leggi meccaniche di sviluppo, di progresso, e così via. Tutto ciò è messo in discussione sia dai postmodernisti che dai tradizionalisti. E, da posizioni diverse, entrambe le critiche rivelano una cosa per certa: che abbiamo a che fare con qualcosa di assolutamente artificiale.
Possiamo considerare la Modernità come qualcosa di concettuale, strutturale, e in un certo qual modo di eterno, nel senso che la Modernità esiste non solo nel mondo contemporaneo ma può esistere in differenti contesti storici. Questo ci consente di analizzare la Modernità come un oggetto di studio astratto dalla contemporaneità. Così, possiamo esaminare la Modernità allo stesso modo in cui ad esempio studiamo la cultura cinese o la cultura romana, come un fenomeno inveratosi, concretizzatosi, ma che appartiene al testo eterno della storia.
2. Il contenuto positivo della Modernità
Abbiamo già detto che la Modernità si fonda sulla negazione della Tradizione. Ma quale tradizione distrugge la Modernità? In Europa la risposta è evidente: il Logos apollineo e dionisiaco nella forma del Cristianesimo. La Modernità si esplica nell’anticristianesimo poiché nella nostra storia europea la Tradizione di cui i tradizionalisti parlano si è manifestata nella forma della tradizione cristiana, la quale, come abbiamo mostrato nella precedente lezione, ha inglobato in sé le strutture precristiane del Logos indoeuropeo.
Sicché la Tradizione, in senso noologico, nel contesto europeo corrisponde all’alleanza tra i Logoi di Apollo e Dioniso nella forma storica concreta che prende il nome di Cristianesimo. Se però, partendo da questa concreta e positiva descrizione di cosa è la Tradizione nel contesto europeo, proviamo a negarla o rovesciarla – la Modernità, abbiamo detto, è anti-Tradizione –, otteniamo qualcosa che certamente non è Apollo né Dioniso ma che nel contesto della Noomachìa non rappresenta solo qualcosa di nichilistico o parodico, come affermano i tradizionalisti, bensì un altro Logos. In altri termini, l’analisi noologica ci permette di vedere chiaramente quello che possiamo definire «contenuto positivo» della Modernità. I tradizionalisti, afferendo al Logos apollineo e dionisiaco, vedono nella Modernità solo nichilismo, un fenomeno «anti-» o «contro-»; in effetti, come abbiamo detto nelle precedenti lezioni, la concezione apollinea è esclusivista, ragion per cui Apollo non riconosce altri Logoi e al di fuori di sé vede solo distruzione – al di fuori del Padre solare, solo materia senza qualità. Al contrario, nella concezione trilogica propria della Noologia riconosciamo l’esistenza di un terzo Logos, segnatamente il Logos di Cibele, una struttura che possiamo descrivere in termini di relazioni interne positive. Ecco perché la Noologia risulta così importante – in questo passaggio, possiamo apprezzarne pienamente il carattere innovativo. Grazie ad essa disponiamo delle chiavi per decifrare meglio e più in profondità cosa rappresenta la Modernità.
I tradizionalisti criticano la Modernità adoperando termini esclusivamente di negazione – essi affermano che la Modernità nega la Tradizione, rovescia i valori tradizionali e così via – e questo non ci sorprende poiché essi, dalla prospettiva della Tradizione e dunque del Logos apollineo (coadiuvato da quello dionisiaco, che però nella tradizione indoeuropea è letto sempre in senso apollineo), considerano la fine della Tradizione come la fine di ogni cosa, del tempo stesso. E probabilmente è questo il motivo per cui essi non sono riusciti a carpire fino in fondo l’essenza della Modernità. Ma lo stesso può dirsi per i modernisti. La Modernità è qualcosa di puramente negativo per i tradizionalisti tanto quanto costituisce qualcosa di puramente positivo per i modernisti, per i quali essa è tutto – progresso, magnificenza, oltreché una sequenza predefinita di eventi che nessuno può cambiare. Ecco perché neanche i modernisti sono riusciti a comprendere davvero la Modernità. Questi ultimi sono fautori di qualcosa che non hanno compreso affatto. La comprensione che offrono i tradizionalisti della Modernità è in rapporto alla loro molto più avanzata; tuttavia, incentrandosi su un discorso basato sulla negazione, risulta incompleta anch’essa.
Con l’analisi noologica possiamo fare un ulteriore passo in avanti e affermare che la Modernità non è solo distruzione, nichilismo, trasformazione caotica, ma rappresenta anche l’affermazione di un nuovo Logos – in realtà non del tutto nuovo. Un terzo Logos. Segnatamente, il Logos di Cibele. Se applichiamo alla Modernità questa nozione, entriamo in una prospettiva completamente nuova. Ora siamo in grado di scorgere la vera natura della Modernità: essa rappresenta il ritorno agli aspetti civilizzazionali preindoeuropei. Metafisicamente, la Modernità precede le invasioni indoeuropee turaniche. Abbiamo quindi a che fare non con qualcosa di assolutamente nuovo ma al contrario di assolutamente antico! Qualcosa che precede il Logos turanico di Apollo e la tradizione indoeuropea nella forma cristiana. Questa considerazione è estremamente importante, per quanto paradossale possa sembrare (in realtà non lo è affatto), perché ci permette di comprendere che la Modernità ha rappresentato il momento della Noomachìa in cui i Titani hanno condotto un nuovo attacco contro gli Dèi olimpici. Un’offensiva che, questa volta, è andata a buon fine. La Modernità si basa infatti sulla vittoria dei Titani, di Cibele, del serpente, sugli Dèi dell’Olimpo, su Apollo. Questo momento della Noomachìa in potenza è sempre esistito, ma si è potuto inverare solo quando il potere della luce è diventato troppo debole; solo allora i Titani si sono potuti liberare dalle catene che li tenevano imprigionati nel Tartaro e hanno potuto fare irruzione nel mondo sottomettendo l’umanità al loro dominio. Questa descrizione non si basa su un discorso puramente negativo poiché, come si può vedere, è possibile parlare di un Logos della Modernità.
Al fine di ricostruire il fenomeno della Modernità, è opportuno risalire al momento in cui la Modernità ha avuto origine. Tale momento storico coincide con la fine del Medioevo e con il Rinascimento, che costituisce la cerniera tra le due epoche – tradizionale e moderna –, il punto in cui questa Noomachìa o titanomachìa raggiunge la sua fase critica. Rinascimento è precisamente il nome che prende la particolare battaglia che si consuma tra il Logos di Apollo e il Logos di Cibele. Una battaglia che segna questa volta la sconfitta di Apollo, della tradizione indoeuropea, dell’orizzonte esistenziale patriarcale a favore di un Logos alternativo. Questa sconfitta si riflette nell’inizio del capitalismo, nell’avvento della borghesia, degli Stati nazionali, della secolarizzazione della società, nel collasso del Cristianesimo e nella nascita della scienza moderna, che costituisce un elemento chiave della Modernità. Noi ci troviamo in effetti a vivere in un mondo nel quale la comprensione della realtà si fonda sulla scienza moderna. Cercheremo ora di capire strutturalmente di cosa si tratta.
3. La scienza moderna
Se leggiamo i padri della scienza moderna, noteremo una caratteristica molto importante: essi criticano Aristotele e la dottrina dogmatica scientifica aristotelica del Medioevo – nel contesto ortodosso, l’insegnamento aristotelico viene adattato da Giovanni Damasceno, mentre nel Cristianesimo occidentale troviamo la tradizione scolastica basata sulla combinazione di concetti aristotelici e platonici. Con la nascita della scienza moderna, Aristotele, e su scala minore Platone, vengono abbattuti. Ma cosa, concretamente, viene attaccato? Come cioè la titanomachìa di cui abbiamo parlato si sviluppa nel campo scientifico teorico?
Anzitutto, viene criticata la teoria di Aristotele dei luoghi naturali o dello spazio anisotropico, alla base della concezione aristotelica del movimento. Secondo Aristotele, ogni corpo possiede una sorta di finalità interiore, l’entelechìa. A questa è correlato il luogo naturale: ogni corpo possiede il suo luogo naturale, e il suo movimento è il movimento verso questo luogo naturale; solo quando un corpo raggiunge il suo luogo naturale, il movimento cessa. Il movimento quindi esiste perché tutti i corpi non si trovano nei loro luoghi naturali. Essi si muovono verso i propri luoghi naturali ma nel farlo, a causa del movimento caotico che caratterizza il mondo sublunare, si ostacolano l’un l’altro e ciò impedisce loro di raggiungere i propri luoghi naturali. È questo che definisce la natura del movimento. Nessun corpo si trova nel proprio luogo naturale, ed è per questo motivo che tutto è vivo ed è in movimento. Solo Dio si trova eternamente nel suo luogo naturale. Egli è il motore immobile, ciò che tutto muove ma non è mosso da nulla, causa del moto ma non soggetto al divenire. Da ciò, scaturisce un peculiare spazio, caratterizzato da un «centro assoluto» a cui ogni cosa tende. Noi, così come ogni altro corpo, stiamo procedendo verso «casa», stiamo facendo ritorno a Dio, causa finale del mondo. Lo spazio è dunque teocentrico. Ne discende una sorta di geografia sacra, caratterizzata da un particolare centro sacro; tutto il cosmo ha un significato, una struttura e una ragione.
Il principale attacco sferrato da Galileo Galilei, Copernico e dagli altri padri della scienza moderna è contro questo concetto di luogo naturale. Per costoro non vi è alcun luogo naturale, e non esiste una causa finale del mondo. La causa del movimento è l’urto tra due corpi. Non vi è quindi alcuna causa finale ma solo una causa iniziale, antecedente al movimento. Non esiste più una finalità. Tutto è casuale. Non c’è più alcuna telelologia nella loro concezione del movimento. Tutto si muove caoticamente come nella concezione aristotelica, ma questa volta senza alcuna finalità, e senza tendere ad alcun centro assoluto. Lo spazio non possiede più alcun centro, le posizioni dei corpi sono relative tra loro. Ne consegue uno spazio non anisotropico ma piuttosto isotropico.
Ma qual è il senso noologico dell’azione di Galileo Galilei e degli altri padri fondatori della Modernità? Questa concezione ha comportato la distruzione della struttura apollinea dello spazio, del tempo, del pensiero, del destino, della storia. Essi hanno distrutto il Logos di Apollo rappresentato da Platone e Aristotele facendosi latori del Logos di Cibele, un Logos che in realtà non costituisce una loro scoperta, un qualcosa di totalmente nuovo, ma rappresenta un ritorno alla forma cibeliana dell’antica filosofia greca presocratica di Democrito e più tardi di Epicuro e di Lucrezio. Questa corrente filosofica era stata accantonata nella visione del mondo cristiana, basata su Platone e su Aristotele. Democrito, Epicuro e Lucrezio erano stati epurati, oserei dire, dal Logos apollineo e dionisiaco cristiano, poiché essi appartenevano ad un’altra visione: una visione atomistica, materialistica, anti-indoeuropea propria del Logos di Cibele, che riappare nel contesto del Rinascimento. Si tratta di una corrente filosofica respinta, estromessa, che nel Rinascimento riappare e diventa dominante. Nella mente dell’uomo rinascimentale avviene un cambiamento paradigmatico che apre la strada al ritorno del Logos di Cibele. L’atomismo di Democrito, respinto dalla cosmologia cristiana, negato nella versione cristiana della struttura del cosmo, riapparire con Newton, Gassendi, Boyl, Descartes, Hobbes. Non è un caso che Marx, il più moderno filosofo del XIX secolo, abbia dedicato la sua tesi di laurea alle filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, a questioni cioè molto antiche legate alla materia, all’atomismo, all’evoluzione. Anche il tema darwiniano dell’evoluzione è presente in questi autori antichi, nello specifico in Lucrezio che nel De rerum natura postulava una teoria antesignana dell’evoluzionismo incentrata sulla lotta per la sopravvivenza delle specie – generate da Venere, dalla Sacra Madre – come molla per l’evoluzione. In questi antichi autori è presente una commistione tra aspetti scientifici e mitologici, ma si tratta pur sempre di una mitologia materialistica, ctonica, cibeliana.
La distruzione della verticalità, del vecchio ordine, della vecchia dottrina medievale e dell’insegnamento cristiano, coincide con l’affermazione di una nuova visione del mondo fondata su di un’ideologia cibeliana strettamente materialistica e immanentistica. Non vi è alcun Paradiso, né Dio trascendente; esiste solo una sostanza da cui tutto nasce e si sviluppa, e questo sviluppo non ha alcuna causa finale, al contrario rappresenta un processo immanente che non tende ad alcun punto attrattivo poiché l’immensa sostanza immanente ha fine in sé stessa. Ciò si riflette nella rivoluzione copernicana: nel passaggio dal geocentrismo all’eliocentrismo la Terra perde il suo ruolo di centro dell’Universo essendo luogo naturale per l’incarnazione di Dio, e diventa un semplice corpo celeste in una infinita rotazione senza fine ultimo attorno ad una palla infuocata insieme ad un numero infinito di altri corpi celesti. Tutto diventa relativo. Lo spazio è permeato da disordine e caos.
In sintesi, oggi consideriamo «scientifico» ciò che ha un carattere cibeliano. Al contrario, le teorie non cibeliane, come quelle che ad esempio incentrate sull’esistenza dei luoghi naturali, non sono ritenute scientifiche ma piuttosto mitologiche. Ciò è il risultato del cambiamento di Logos occorso con l’ingresso nella Modernità. Tuttavia, tale mutamento non è stato immediato. Nel costruire la nuova visione scientifica del mondo moderno, il Logos di Cibele si è appropriato di alcuni aspetti appartenenti al razionalismo apollineo, alla logica o alla dialettica dionisiaca. Ha avuto cioè luogo un processo di assoggettamento da parte del Logos di Cibele di temi (logica, filosofia, ecc.) sviluppati dal precedente Logos apollineo, i quali sono stati posti sotto il suo dominio. Ciò ha generato una cultura post-apollinea piuttosto diversa dalle culture pre-apollinee di Lepenski Vir, di Vinča, di Çatalhöyük. La Modernità presenta la stessa struttura civilizzazionale e lo stesso Logos della civiltà della Grande Madre, ma mentre quest’ultima è pre-apollinea, la Modernità è post-apollinea.
4. La politica moderna
La vittoria del Logos di Cibele si riflette anche nella politica. La distruzione dell’Impero è l’essenza della politica moderna, e questo non deve sorprenderci dacché l’Impero, come abbiamo visto nella precedente lezione, costituiva l’organizzazione normativa dello spazio politico cristiano, sia nel contesto bizantino che in quello cattolico occidentale. L’attacco all’Impero è un attacco alla Tradizione, e ciò avviene attraverso i concetti di Stato moderno e di nazione.
All’idea imperiale succede una visione atomistica, con lo Stato nazionale come atomo sociopolitico privo di qualsiasi fine. Lo Stato moderno si distingue dall’Impero precisamente per questo: esso è privo di una causa finale, nega la missione catecontica e la sacralità dell’Impero. Lo Stato moderno, secondo le definizioni di Jean Bodin o Thomas Hobbes, viene creato dal basso con un contratto sociale; sicché esso non è il riflesso di un paradigma celeste con una ragione finale, ma una costruzione che procede dal basso con unicamente una causa anteriore nella forma del contratto sociale stipulato dagli individui. Ma lo Stato moderno non è solo rivolto contro la missione imperiale; esso è di natura secolare, per cui nega qualsiasi senso religioso alla costruzione politica stessa. Tollera la presenza della Chiesa (cattolica, protestante, ortodossa) ma separandola dalla sfera politica. Ci troviamo pertanto difronte ad una concezione completamente differente della politica. È rivelatore che in Hobbes lo Stato venga rappresentato simbolicamente dal «Leviatano». Lo Stato moderno è il serpente, il drago emerso dal basso al fine di distruggere tutto ciò che è sacro. Ed esso appare precisamente in epoca rinascimentale, insieme alla visione scientifica moderna. Lo Stato nazionale moderno è in definitiva anticristiano, antitradizionale, antieuropeo, antiapollineo e antidionisiaco. In breve, rappresenta una costruzione puramente titanica.
Anche la nazione è un concetto che nella sua accezione moderna appare nel Rinascimento. Essa designa la popolazione che vive all’interno dello Stato nazionale, cioè la comunità dei cittadini, degli individui che hanno stipulato il contatto sociale, e che potrebbero ridefinire la nazione stessa stipulandone uno nuovo e diverso. Ad esempio, i cittadini del Belgio potrebbero realizzare ad un certo punto di non voler più vivere nel Belgio e di volere al suo posto uno Stato fiammingo e uno vallone; essi ne avrebbero tutto il diritto, poiché lo Stato belga non è il riflesso di un’istanza trascendente ma il risultato di un contratto sociale che, come è stato concluso, così può essere emendato o sciolto. Sicché la nazione in questo contesto costituisce un qualcosa di assolutamente artificiale.
Tutto ciò fa parte di una concezione puramente immanente della politica. E sebbene la struttura verticale dello Stato sia stata in un certo senso mutuata dalla tradizione indoeuropea premoderna, in realtà sin dall’inizio essa va a costituire un nuovo tipo di gerarchia titanica e burocratica, caratterizzata da una nuova figura dominante.
Nello Stato moderno la figura del sacerdote è assente, questo è chiaro. Il secolarismo teorizza la totale estromissione dei sacerdoti dal governo, relegandoli ad un ruolo esclusivamente culturale – e via via sempre più marginale, essendo la marginalizzazione della Chiesa un altro processo insito nella politica moderna. Anche i guerrieri, che nella struttura sociale tradizionale costituiscono l’aristocrazia, vengono marginalizzati. Il loro status diventa quello di «mercenari» al servizio dello Stato. Essi vengono spossessati dell’arma, cioè del simbolo per eccellenza della classe guerriera: le armi vengono ora concesse dallo Stato, e quando quest’ultimo decide che un guerriero lo ha servito a sufficienza, lo congeda e se le riprende. Con lo sviluppo delle armi di Stato, questo processo di marginalizzazione e di «mercenarizzazione» della classe guerriera diventa sempre più evidente – un cittadino può forse detenere privatamente un’arma antica come la spada, ma non può possedere un cannone o un carro armato! E, se non si possiede la propria arma, non si è più un guerriero autonomo ma solo un mercenario al servizio dello Stato, che combatte con un equipaggiamento fornito da quest’ultimo ed è sottoposto alle sue decisioni burocratiche.
Ma se sia la casta sacerdotale che quella aristocratica guerriera vengono progressivamente marginalizzate ed estromesse, qual è la figura dominante nella società moderna? A chi sono demandate le decisioni in seno ai sistemi politici moderni? Qui si fa largo una nuova figura: quella del borghese, che dà vita al cosiddetto sistema borghese-capitalista. Si tratta di una figura normativa nella Modernità, che andremo ora ad analizzare.
È comunemente accettato che la figura del borghese appartenga al terzo Stato (in francese: tiers état), corrispondente alla terza funzione duméziliana e chiamato così perché prima della rivoluzione francese in ordine di importanza veniva dopo i primi due, ossia clero e aristocrazia, corrispondenti alle prime due funzioni. Vi è qui un malinteso. Il borghese, letteralmente «abitante del borgo», nasce tipicamente come mercante che vive in città. Ma questa figura era assente nella società nomade turanica ed era del tutto marginale nella tradizionale società indoeuropea sedentarizzata, essendo la terza funzione assolta rispettivamente dai pastori mandriani (nella società nomade) o dai contadini (nella società sedentarizzata), come abbiamo visto nella terza e nella quarta lezione. La figura normativa del borghese è dunque nuova. È sbagliato affermare che il borghese rappresenti la terza funzione tradizionale che sopraffà la prima e la seconda, poiché il borghese non è il tiers état in senso indoeuropeo.
Il mercante, il borghese, vivendo in città e occupandosi degli scambi commerciali, del douce commerce (dolce commercio), non ha nulla a che fare né con il bestiame – non è un allevatore – né con il lavoro della terra – non è un contadino –, ma è del tutto evidente che egli non sia neppure un guerriero o un sacerdote. Si tratta piuttosto di una figura frapposta tra quella del guerriero e quella del contadino, tra aristocrazia e popolo. Una figura dal carattere indolente, che rifugge dal lavoro produttivo, e vile, incapace a differenza del guerriero di affrontare la morte. Una figura, potremmo dire, corrispondente a quella di un contadino accidioso o di un guerriero codardo. Ciò lo rende completamente innaturale: il borghese è il prodotto di una perversione in relazione alla nostra visione tradizionale, il frutto di una malattia sociologica. Nella nostra logica tradizionale cristiana e indoeuropea non c’è spazio per lui, poiché non è un produttore né un guerriero o un sacerdote. Il mercante non trova posto nella tradizione indoeuropea, la sua esistenza è confinata ai margini della società come facilitatore per quanto concerne alcuni aspetti tecnici. Ma non ha mai costituito una classe o una funzione, non ha mai posseduto una propria mitologia, una propria etica e una propria tradizione.
Questa figura nasce come classe artificiale o meglio come sottoclasse dedita a servire la classe guerriera nelle città europee – fondate dai guerrieri inizialmente come fortezze – e che cresce con la crescita del commercio cittadino. E diventa una classe rilevante precisamente nel momento in cui inizia la vendetta di Cibele con l’ingresso nella Modernità. A tal proposito, è interessante notare come il simbolo tradizionale di Cibele presenti una corona turrita a forma di città; vi era dunque qualcosa di borghese in questo simbolo sin dall’antichità. La maggioranza dei borghesi è di provenienza contadina, ma si tratta di villani allontanatisi dal loro luogo naturale. Quando essi lasciano per diverse ragioni il loro villaggio – perdono il loro terreno o la possibilità di coltivarlo – giungono in città. Ma cosa diventa un contadino, un paesano, in città? Nessuno. Un idiota nel senso greco del termine, cioè una persona priva di identità collettiva. Un individuo atomizzato – non è un caso che l’atomo sia alla base della nuova scienza materialistica rinascimentale. Una figura che non trova più un suo posto nella società tradizionale, e che dunque va a costituire una sottoclasse. Una sottoclasse borghese composta da esseri umani malati, innaturali, anti-normali, semanticamente idiotici poiché privi di una relazione organica con un’identità collettiva, spogli di ogni qualità collettiva. La loro è una identità costruita artificialmente.
Quando la borghesia cresce, inizia a definire la visione sociale normativa, detronizzando le caste guerriera e sacerdotale ma anche distorcendo il terzo Stato. Non dobbiamo dimenticare che la borghesia ha in odio i villani, i contadini che assolvono la terza funzione tradizionale, e infatti li sfrutta con la speculazione. Il mercante non lavora la terra, non alleva il bestiame né conquista bottini di guerra, dunque è una figura totalmente improduttiva e parassitaria, che per sopravvivere necessità di sfruttare le altre classi, e lo fa creando bolle speculative, alterando il mercato, al fine di appropriarsi della produzione.
Una parte della borghesia proveniva da altri gruppi etnici tenuti ai margini nella tradizionale società indoeuropea, non appartenenti ad alcuna corporazione tradizionale, ma il grosso era di derivazione contadina. Questo non è casuale. E ora, grazie alla Noomachìa, siamo in grado di svelare il mistero noologico che vi si cela dietro. Chi erano infatti i contadini europei? Come abbiamo visto nella quarta lezione, i componenti della terza funzione della società indoeuropea sedentarizzata erano i membri della civiltà di Cibele posti sotto il controllo dell’orizzonte indoeuropeo. Ora, con il loro distacco da questa struttura di controllo che rappresentava la peculiare società cristiana feudale verticale, le loro origini cibeliane possono finalmente riemergere. Ciò corrisponde alla liberazione del livello più profondo dell’identità europea contadina. I paesani che giungono in città sono i latori di archetipi arcaici appartenenti all’antico inconscio collettivo cibeliano che viene rianimato precisamente nel momento in cui ha termine il Medioevo.
5. Teorie politiche moderne
Tutte le teorie politiche elaborate nella tarda fase della Modernità sono inestricabilmente connesse a questo sistema borghese.
La più importante glorificazione della figura del borghese viene fornita dal liberalismo, la prima teoria politica moderna. Essa esalta l’idiota nel senso greco del termine, cioè l’uomo spogliato da ogni forma di identità collettiva. Il liberalismo è sin dall’inizio un «idiotismo».
Ma lo stesso può dirsi per il comunismo, seconda teoria politica moderna incentrata sulla figura del proletario. Se il borghese è un idiota facoltoso, figura basilare del liberalismo, il proletario è un idiota nullatenente. Entrambe sono figure concettualmente moderne. Come il borghese, anche il proletario è un ex contadino slegato dalla società tradizionale e giunto in città – la figura del proletario recide i legami con la tradizione religiosa, fuoriesce dalla struttura tradizionale trifunzionale per fare ingresso nella struttura artificiale commerciale e industriale della moderna città borghese.
Il comunismo rappresenta fondamentalmente l’idea che i proletari debbano ad un certo punto spodestare la borghesia. La classe artificiale degli idioti poveri, nella visione comunista, dovrebbe in estrema sintesi sopraffare ad un certo punto la classe artificiale degli idioti ricchi e ridistribuirne la ricchezza. È importante notare come la proletarizzazione, cioè l’eradicazione del contadino dal suo luogo naturale, fosse un processo positivo agli occhi dei comunisti. Questo è un punto fondamentale. Marx ed Engels sottolineavano come non fosse sufficiente essere anti-borghesi per essere comunisti, e che occorresse essere post-borghesi e non pre-borghesi. Se leggiamo il Manifesto del Partito Comunista, noteremo come la maggior parte del testo sia dedita a chiarire ciò che distingue i comunisti non solo dalle correnti non-comuniste ma anche da quelle anti-borghesi. La critica nella prima parte del Manifesto è difatti diretta contro la cosiddetta aristocrazia anticapitalista di ispirazione feudale o clericale, anch’essa anti-borghese ma intenta a restaurare una qualche tradizione pre-borghese. I comunisti affermano che in relazione a questi ultimi, occorresse schierarsi dalla parte della borghesia e del capitalismo al fine di distruggere ogni traccia della società tradizionale. Ciò che li distingue dai liberali è che, a questo processo, fanno seguire il superamento dello stesso sistema borghese attraverso la rivoluzione comunista; allora, il proletariato prenderà il posto della borghesia come classe dominante. Dove sono in tutto ciò i villani, i paesani, i contadini a cui è demandata la terza funzione nella struttura tripartita tradizionale? Essi sono destinati a subire un processo – giudicato positivo, ribadiamo – di proletarizzazione svincolandosi dalle strutture della società tradizionale, riversandosi nelle città e trasformandosi in operai proletari che lavorano nelle fabbriche moderne. Il villaggio dunque è destinato semplicemente ad essere distrutto. Quest’ultimo è infatti il nemico tanto del comunismo quanto del liberalismo, dacché entrambi hanno in odio il mondo rurale legato alla società tradizionale, ritenendo centrale la città, crocevia dello sviluppo e del progresso.
La seconda teoria politica è pertanto permeata da una visione antitradizionale, meccanicistica e materialistica, che la accomuna a quella liberale.
Veniamo alla terza teoria politica della Modernità: il nazionalismo. A dispetto di quanto i patrioti potrebbero pensare, anche quest’ultima teoria politica ha un carattere assolutamente antitradizionale dacché lo Stato moderno è una costruzione artificiale borghese basata sulla distruzione dell’Impero e sul contratto sociale, e la nazione intesa in senso moderno è anch’essa un concetto artificiale della borghesia, non rappresentando la comunità organica trifunzionale ma l’unità artificiale dei cittadini. La figura centrale nel nazionalismo è il cittadino sciovinista ed egoista che abita la città. Per contro, così come nelle prime due teorie politiche, i contadini, i villani, vengono considerati politicamente «subumani»: nello Stato moderno, essi vengono trattati semplicemente come cittadini di seconda categoria che vivono tra una città e l’altra, nonostante letteralmente non siano cittadini dal momento che abitano nei villaggi rurali. Ciò significa che questa figura della società tradizionale non trova posto neanche nella terza teoria politica, a riprova del suo carattere antitradizionale. Il nazionalismo si basa infatti sull’esaltazione di un concetto borghese – l’unità artificiale dei cittadini – con un’accentuazione non tanto del libero commercio come nel caso del liberalismo quanto della difesa degli interessi economici della nazione o della burocrazia statale.
In definitiva, all’inizio della Modernità assistiamo ad una scissione nella terza funzione tra i contadini indoeuropei tradizionali e i sempre più numerosi ex contadini che accorrono in città diventando cittadini borghesi, proletari o sciovinisti. Una scissione propedeutica alla distruzione della società tradizionale e che viene caldeggiata da tutte e tre le teorie politiche moderne – liberalismo, comunismo, nazionalismo. Ecco perché esse hanno tutte una natura assolutamente cibeliana.
6. Geosofia della Modernità
Passiamo ora ad una breve analisi geosofica della Modernità. La Modernità ha inizio parzialmente in Italia e in Europa settentrionale, ma il più chiaro e nitido esempio di società moderna ce lo fornisce la Gran Bretagna, dove la costruzione della società borghese prende il suo avvio. Questo processo non è rivoluzionario ma piuttosto evolutivo; in altri termini, non assistiamo ad una rivoluzione borghese ma piuttosto ad una «evoluzione» in senso borghese della società, con l’introduzione progressiva di elementi borghesi all’interno dello Stato – con il teorico politico Hobbes, con Cromwell, con il protestantesimo, ecc. L’esecuzione di Carlo I, primo monarca al mondo ad essere condannato a morte da un tribunale, può essere simbolicamente considerata la detronizzazione del Logos indoeuorpeo. Quanto al protestantesimo, ne abbiamo già discusso nelle precedenti lezioni giudicandolo una forma di titanismo interna al Cristianesimo. Tutti questi elementi – sviluppo della concezione borghese, regicidio, protestantesimo – si manifestano nel contesto bipolare schizofrenico britannico, producendo un dramma interno tra anglo-protestanti, latori della Modernità, e celti cattolici, schierati dal lato della Tradizione. I celti in questo contesto sono stati gli ultimi difensori della società sostanzialmente tradizionale dinanzi al modernismo cibeliano della società inglese.
Tale società inglese darà poi vita all’Impero britannico, in realtà un «impero anti-imperiale». Per sviscerare meglio questo aspetto, sarà opportuno richiamare le profezie del gigante dai piedi d’argilla e delle quattro bestie contenute nel libro di Daniele (Antico Testamento). Nel settimo capitolo del suo libro, Daniele ha in sogno quattro bestie, rappresentazione simbolica di quattro imperi che sorgeranno cronologicamente rispetto al suo tempo: il leone (Babilonia), l’orso (Medo-Persia), il leopardo (Grecia), la bestia terribile con dieci corna non incoronate (Roma). Questa immagine dei quattro imperi possiamo porla in parallelo alla visione del gigante quadripartito presente nel secondo capitolo, in cui il re Nabucodònosor ha in sogno di un gigante con «la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte di creta» (Daniele 2,32-33). In entrambe queste visioni possiamo vedere rappresentata una transizione del Catéchon. Il quarto elemento, il ferro, rappresenta l’Impero romano (incluse le sue continuazioni nella forma dell’Impero bizantino e la Terza Roma), l’ultimo dei quattro imperi, il più radicale ma comunque tradizionale, quello in cui nacque Cristo. Ad un certo punto della visione però, una pietra si stacca dal monte «non per mano dell’uomo» e va battere contro i piedi della statua, i quali, costituendo la parte più fragile del gigante dato che argilla e ferro non si amalgamano, vengono frantumati; allora, l’intero gigante crolla. Daniele spiega al re Nabucodònosor il significato della pietra che si stacca e «stritola il ferro, il bronzo, l’argilla, l’argento e l’oro» nei termini seguenti: «al tempo di questi re, il Dio del cielo farà sorgere un regno che non sarà mai distrutto e non sarà trasmesso ad altro popolo: stritolerà e annienterà tutti gli altri regni, mentre esso durerà per sempre» (Daniele 2,44). Daniele profetizza dunque l’avvento di un quinto regno, fatto sorgere da Dio e che avrebbe distrutto i precedenti e sarebbe durato per sempre. Sulla base di questa profezia, nel Seicento nasce un movimento religioso millenarista inglese detto dei Quinto-monarchisti che sarà attivo per tutto il periodo del Commonwealth di Cromwell (1599-1658); questa setta veniva denominata in tal modo poiché vedeva in Oliver Cromwell colui che stava aprendo la strada precisamente al quinto regno. Sicché i quinto-monarchisti appoggiarono Oliver Cromwell, con la speranza che egli avrebbe riformato la società corrotta e fatto così sorgere la Quinta Monarchia. In realtà l’Impero britannico, lungi dall’essere il quinto impero della profezia di Daniele, il regno eterno di Cristo, ha rappresentato l’anti-impero. Nella visione di Daniele, lo si potrebbe piuttosto paragonare al quinto elemento della statua, all’argilla che conferisce fragilità al gigante e a causa della quale esso cadrà: un elemento simbolicamente anticristiano e post-tradizionale.
L’Impero britannico è stato il primo impero moderno, un impero anti-tradizionale, protestante, fondato su una concezione borghese, liberale e per certi versi anche nazionalista – in esso possiamo rintracciare sia la prima che la terza teoria politica (non la seconda). Una delle sue principali fonti filosofiche è stata la scuola scozzese del Common sense di Thomas Reid e Adam Ferguson basata sull’«evidenza del senso comune». Questa ha rappresentato l’assolutizzazione del misero individuo, la glorificazione della mente idiotica dagli interessi limitati priva di grandi rivelazioni. I filosofi scozzesi del Common sense sono inoltre considerati i padri filosofici della società nordamericana, avendo contribuito al pragmatismo americano.
Parallelamente all’evoluzione borghese occorsa in Inghilterra, in Francia stava da tempo fermentando una rivoluzione borghese, culminata nella rivoluzione francese. Una rivoluzione apertamente anticristiana, antimonarchica, prodromica all’ideale assolutamente immanente, materialistico e anticristiano – non in senso protestante ma ateistico – del socialismo. In quel periodo, in particolar modo in Francia, si stava sviluppando una nuova cultura, l’Illuminismo. Fondata su razionalismo, egualitarismo e contrattualismo, la teoria dei Lumi ha rappresentato il culmine di tutta questa Modernità.
Abbiamo così visto come Francia e Inghilterra siano state le prime promotrici della Modernità; per contro, il mondo latino e l’Impero austriaco gli hanno opposto resistenza, insieme all’Impero ottomano – anch’esso caratterizzato da una società di natura tradizionale – e alla Russia, che vi ha resistito più di tutti. Ma, con la caduta degli imperi tradizionali e l’avvento degli Stati-nazione, lo spirito moderno dilagherà ovunque – la creazione del moderno Stato russo è la fine della Russia!
7. Modernità come ciclo post-catecontico
La Modernità inizia con la vendetta di Cibele, e tutta la storia della Modernità rappresenta il consolidamento di questo schema noologico, con la progressiva purificazione dalle tracce della precedente società tradizionale indoeuropea – col passare del tempo, la civiltà moderna diventa sempre più cibeliana, cosicché ciò che ad esempio trent’anni fa veniva considerato progressista oggi è ritenuto conservatore. La storia della Modernità è la storia della progressiva costruzione di Babele, un tipo di civiltà in realtà noologicamente molto antico. Un processo che oggi sta raggiungendo il suo apice. Il femminismo moderno sviluppatosi in ambito politico, educativo, sociale, non rappresenta l’inizio di qualcosa ma piuttosto il compimento di questo processo, al termine del quale Cibele si rivelerà completamente. Le manifestazioni neofemministe di oggi, con Madonna seguita da centinaia di migliaia di donne che marciano per New York contro Trump ad esempio, rappresentano l’invocazione della castrazione della figura maschile, un simbolico sacrificio di Trump in quanto simbolo del patriarcato. Anche l’accettazione giuridica dell’omosessualità è parte di questo processo cibeliano; in effetti, l’omosessualità era parte integrante dei culti tipicamente cibeliani – omosessuali partecipavano ai cortei in nome di Cibele in qualità di suoi particolari sacerdoti.
Tutti i processi che hanno preso il via con l’avvento della Modernità abbiano come finalità l’emersione della pura immagine di Cibele. La Modernità è metafisicamente femminista poiché materialistica, orientata contro il tipo eroico e patriarcale presente nella cultura indoeuropea. Anche il borghese è una figura femminista poiché non è un guerriero né un produttore ma un parassita, rappresenta la forma peggiore della natura femminile, una femminilità non indoeuropea né cristiana ma cibeliana. A tal proposito, vorrei citare un aneddoto sociologico interessante. Per Werner Sombart la genesi del capitalismo coincide con l’emergere della maîtresse, un nuovo tipo umano parassitario e dispendioso che, richiedendo differentemente dalla figura della moglie una esagerata disponibilità finanziaria, spingeva gli uomini a partecipare ai processi speculativi capitalistici; secondo Sombart, dunque, la maîtresse ha costituito una delle molle dello sviluppo della società capitalistica.
Riassumendo, oggi stiamo vivendo nel mondo di Cibele, nel regno della Grande Madre. Il momento della Noomachìa che stiamo attraversando è il momento della vendetta dell’orizzonte esistenziale preindoeuropeo, che riemerge con la comparsa artificiale della borghesia, con la distruzione degli imperi tradizionali che vengono sostituiti da simulacri cibeliani nella forma degli Stati nazionali moderni, e con lo sviluppo organico della visione del mondo scientifica moderna.
L’immagine della Modernità che abbiamo tracciato in questa breve disamina noologica corrisponde nella visione cristiana alla fine del Catéchon. Il Catéchon è caduto! Il Catéchon è stato il Re, lo Zar, l’Imperatore che ha difeso la società tradizionale e che è stato sconfitto dal sistema politico moderno caratterizzato da democrazia, Stato nazionale, oggi globalizzazione. Ciò ha comportato la fine della società tradizionale e la progressiva scomparsa delle tre funzioni che la costituivano – attualmente in Europa siamo tutti cittadini borghesi. Possiamo dunque affermare di stare vivendo un ciclo post-catecontico, in cui Satana è stato liberato e le tendenze del sottosuolo hanno fatto irruzione nel mondo.
8. Conclusione
Ora siamo in grado di vedere con chiarezza come la Noologia, che inizialmente sembrava forse eccessivamente astratta e metafisica, abbia in realtà a che fare con la realtà viva in cui siamo immersi. Noi siamo parte di questa titanomachìa, di questo conflitto, di questo scontro tra Logoi, e non possiamo chiamarcene fuori in alcun modo dacché siamo definiti nel modo più assoluto da questo momento della Noomachìa.
In conclusine, noi ci raffrontiamo alla realtà attraverso una sua lettura, un paradigma, che oggi è definito dal Logos di Cibele. Ma non è sempre stato così. La Noologia viene in nostro soccorso mostrandoci l’esistenza altri due altri Logoi e, inserendo la Modernità nel contesto della Noomachìa, ci permette di relativizzarla. La Geosofia ci permette inoltre di collocarla nello spazio. Noologia e Geosofia ci forniscono in sostanza la chiave per interpretare il mondo in cui viviamo.
[1] Di seguito, l’indice di tutte le lezioni precedenti del corso introduttivo alla Noomachìa:
• Lezione 1. Noologia https://www.geopolitica.ru/it/article/introduzione-noomachia-lezione-1-n...
• Lezione 2. Geosofia https://www.geopolitica.ru/it/article/introduzione-noomachia-lezione-2-g...
• Lezione 3. Il Logos della civiltà indoeuropea https://www.geopolitica.ru/it/article/introduzione-noomachia-lezione-3-i...
• Lezione 4. Il Logos di Cibele https://www.geopolitica.ru/it/article/il-logos-di-cibele
• Lezione 5. Il Logos di Dioniso https://www.geopolitica.ru/it/article/introduzione-noomachia-lezione-5-i...
• Lezione 6. La civiltà europea https://www.geopolitica.ru/it/article/introduzione-noomachia-lezione-6-l...
• Lezione 7. Il Logos cristiano https://www.geopolitica.ru/it/article/introduzione-noomachia-lezione-7-i...
Trascrizione e traduzione a cura di Donato Mancuso.