L’asse archeofuturista di Aleksandr Dugin, da Platone a Heidegger
Schede primarie
Spiegare il pensiero politico e filosofico di uno degli intellettuali più originali del panorama eurasista, Aleksandr Dugin secondo un possibile asse “archeofuturista”: questo è l’obiettivo del dialogo con Luca Siniscalco, tra i curatori in Italia delle opere del pensatore moscovita.
Luca Siniscalco, dalla Quarta Teoria Politica al Platonismo politico. Dugin supera le attuali correnti di pensiero politico-filosofico. Con quale prospettiva?
“L’intera speculazione filosofico-politica duginiana è un coraggioso tentativo di squadernare inediti scenari ermeneutici, simbolici e narratologici grazie ai quali comprendere – e demiurgicamente orientare – un nuovo orizzonte comunitario di senso e destino.
Se la Quarta Teoria Politica rappresenta un cantiere aperto per l’elaborazione di una dottrina e prassi politica capace di oltrepassare le tre grandi narrazioni ideologiche del Novecento (liberalismo, comunismo, nazi-fascismo) secondo un asse archeofuturista che collega istanze tradizionali a scenari postmoderni, il Platonismo politico costituisce una formula per tematizzare nuovamente in senso assiale, tradizionale e organicista l’assetto del Politico, attraverso uno sforzo rivoluzionario-conservatore volto a ripensare sulla base di una “topografia verticale” e di una “politica trascendente” l’assetto complessivo della vita aggregata dell’uomo del nuovo millennio”.
Dove si ritrovano queste speculazioni?
“La connessione fra le due prospettive emerge con evidenza nel saggio Teoria esistenziale della società(pubblicato in Platonismo politico), laddove Dugin rivendica la connessione fra la Quarta Teoria Politica e la riscoperta del legame vitale che sussiste fra l’ambito del Politico e quello del Sacro, nesso che assurge a cuore pulsante del Platonismo: “Nella Quarta Teoria Politica, il popolo decide di avere Dio, ed è il Dasein stesso a prendere questa decisione, il Dasein come popolo (Volk). E se nel campo metafisico, filosofico e sociologico, la Quarta Teoria Politica risulta rivoluzionaria (conservatrice-rivoluzionaria), dovrebbe rivelarsi tale anche nell’ambito della religione. Così, la fede del popolo risvegliato alla storia è la fede di chi osa credere nel Dio vivente, nel Selbst di Dio, in Dio come antitesi del suo simulacro istituzionalizzato, il Grande inquisitore”.
In cosa consiste il riferimento ad una rielaborazione del platonismo?
“Il saggio Platonismo politico racchiude in sé numerosi scritti, che approfondiscono questioni assai eterogenee fra loro. Il trait d’union che permette tuttavia di unificare coerentemente le riflessioni di Dugin è il riconoscimento, all’interno della filosofia platonica, di un nucleo archetipico: l’“unità fondamentale delle strutture della conoscenza, della società e del cosmo”. Diversamente dalla parcellizzazione riduzionista e analitica della realtà promossa dalla modernità razionalista e liberale, l’orizzonte speculativo platonico sancisce, con il rigore metodologico proprio della filosofia dialettica, la verità già ermetica dell’Unus Mundus: uomo e natura, anima e mondo, microcosmo e macrocosmo sono l’uno il riflesso dell’altro – così come teoria e prassi, psiche e politica, individuo e comunità. Il Platonismo politico individua nell’assetto gerarchico, verticale, organicista, metafisicamente orientato della politica lo strumento par excellence – ben radicato nella tradizione indoeuropea – per conseguire la trascendenza nell’immanenza inverando il cielo sulla terra, dal momento che “l’uomo è un anello della catena degli dèi. Egli è teso tra le due origini (nachala), e compie da sé, con la sua esistenza, il trasferimento dell’una nell’altra, come un demiurgo, un dio (…). Egli crea l’ordine del cosmo, organizza le copie, e dissolve i fenomeni nella contemplazione delle idee”. Parimenti “la Repubblica – Politeia – è uno spaccato del cosmo (la Repubblica delle anime, nel platonista Crisippo) (…). La Repubblica (Platonopoli) è organizzata dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso (poiesis/noesis). Essa fissa nel diritto la verità, rivelata dai filosofi; l’impulso è delegato ai guardiani, mentre gli artigiani incarnano l’orientamento nella produzione di cose empiriche. I filosofi creano la Repubblica in modo demiurgico. L’Anima del Mondo si situa precisamente al centro della Repubblica. Questa è l’oro dell’essere. È la concentrazione noetica dello scambio dinamico tra il mondo delle idee e il mondo delle cose”. Il Platonismo politico – è questa intuizione a rendere il saggio duginiano non un mero esercizio filologico, bensì una proposta paradigmatica concreta, calata nella fatticità del mondo della vita – è una forma originaria del Politico che, mutatis mutandis, può sempre essere riattualizzata. E questo soprattutto perché con la nozione di Platonismo, com’è chiarito in Noomachìa. Rivolta contro il mondo postmoderno, non è semplicemente da intendersi il corpus platonico, bensì una forma archetipica del Logos apollineo che, nella millenaria Guerra dei Logoi (la Noomachìa appunto), si manifesta anche all’interno di civiltà che con Platone mai ebbero contatti diretti. Ampia parte della cultura greca, romana, iranica, indiana, slava è, stando a Dugin, apollinea e, in questo senso, politicamente platonica. Da qui deriva la ricchezza di un orizzonte mitico-simbolico a cui gli studi metapolitici futuribili dovrebbero guardare con vivo interesse”.
Quanto incide nel dibattito russo il pensiero di Dugin?
“Domanda insidiosa. Come accade per ogni pensatore di rango, non è affatto semplice stabilire quanto a fondo la visione duginiana incida o meno nell’autocoscienza culturale, politica ed esistenziale di un popolo – quello russo in questo caso. Ai posteri l’ardua sentenza”.
Viene spesso descritto come vicino al presidente Putin…
“Certamente una lucida disamina della questione deve prescindere dalle sclerotizzazioni cui spesso si riduce l’informazione – tanto italiana quanto internazionale – sul tema. Dugin non è un intellettuale “organico” alla classe dirigente russa, né tantomeno il “Rasputin del Cremlino” o l’“eminenza grigia di Putin”, come è stato faziosamente definito. Ugualmente errato sarebbe però ritenere del tutto ininfluente il pensiero di un autore internazionalmente noto, tradotto in decine di lingue, che in Russia ha esercitato una rilevante carriera come professore all’Accademia Militare, negli anni Novanta, ha detenuto dal 2008 al 2014 la carica di Docente di Sociologia presso l’Università Statale Lomonosov di Mosca ed è tuttora protagonista di importanti dibattiti pubblici su temi culturali e di attualità. Quel che è certo è che la discussione del pensiero di Dugin riguarda prevalentemente, in Russia come nel resto del mondo, le sue riflessioni sull’attualità politica e su temi di carattere geopolitico (multipolarismo, relazioni internazionali) e filosofico-politico (la Quarta Teoria Politica). Molto più ristretto è il dibattito sulla sua opera di tipo metastorico, metafisico e ontologico – su cui forse, stando a quanto riferito dallo stesso Professore, è in Italia che si sta avviando il più interessante approfondimento, probabilmente sulla scorta di un certo antico e radicato interesse per gli autori tradizionali (in primis Julius Evola) e per il pensiero metapolitico di orientamento rivoluzionario-conservatore”.
Chi sono gli autori del pantheon del pensatore russo?
“Sono numerosi e quanto mai eterogeni. Proprio da questa intelligente apertura, priva di pregiudizi, alla pluralità delle forme del pensiero umano deriva la grande forza e originalità dell’opera di Dugin – come pure alcune contraddizioni (talune apparenti, altre forse insolubili) del suo sistema. Ritengo che sia possibile individuare cinque principali filoni culturali cui l’opera di Dugin esplicitamente si ricollega criticamente in ambito filosofico-speculativo”.
Quali?
“Il Pensiero di Tradizione – o Tradizionalismo integrale (Guénon, Evola e, nell’interpretazione duginiana, Eliade); l’esoterismo occidentale, mediato dall’esperienza nel Circolo Yuzhinsky (con Mamleev, Golovin e Dzhemal); Nietzsche e la Konservative Revolution (Heidegger, Jünger, Niekisch, Schmitt); il postmodernismo francese (Deleuze e Guattari, Lacan, Baudrillard, Foucault); la teologia ortodossa e il connesso eurasiatismo anti-occidentalista (Leont’ev, Danilevski, Alexeiev, Gumilev).
A questi si possono aggiungere, oltre ai classici della geopolitica, gli autori delle scuole di etnologia russa, di sociologia tedesca, di antropologia culturale americana e di sociologia e antropologia strutturale francese (su tutti Širokogorov, Weber, Tönnies, Sombart, Boas, Durkheim, Lévi-Strauss, Durand), dai quali il nostro mutua molti dei concetti alla base del suo modello “etnosociologico” (cui è destinato un volume di prossima pubblicazione per i tipi di Aga)”.
Dugin in Occidente: a chi può essere accomunato nella critica al globalismo? Quali le sue peculiarità?
“Il rifiuto rivoluzionario-conservatore della “planetarizzazione” (Heidegger) mondialista segue in Dugin logiche non dicotomiche e a tratti avanguardiste, visto l’interesse dell’autore per il postmodernismo, i più recenti trend della cultura pop, le questioni tecnologiche (cibernetica, virtualità, postumano, realismo speculativo) e i “miti moderni”, che spesso il mondo conservatore ha trattato con superficialità o semplicemente tralasciato, per miopia intellettuale. In questo senso, l’antimodernismo duginiano si appella ad una Origine metafisica che non è riposta nel passato storico, bensì nella potenza trasfigurante dello sguardo che l’individuo e le civiltà gettano sul mondo – e che sempre, nell’hic et nunc, possono metamorficamente essere rinnovate e trasfigurate.
Sul piano della dottrina dello Stato Dugin rifiuta la globalizzazione liberale e capitalista, ma pure le opzioni sovraniste in senso nazionalista e sciovinista – da lui concepite come esiti ultimi della politica moderna – e ripropone l’idea tradizionale di Impero, in correlazione con il concetto di “civiltà” (Huntington). L’Imperium, per il filosofo russo, “si distingue dallo Stato nazione per tre tratti principali: l’esistenza di una missione storica o metastorica (sacra) che eccede largamente il semplice gioco degli interessi pragmatici (…); la preservazione delle enclave etniche con le loro particolarità linguistiche, religiose ed anche giuridiche (…); e infine il controllo di un grande spazio” (nell’accezione schmittiana del termine). Da figura premoderna, dunque, a protagonista degli sviluppi multipolari della geopolitica postmoderna.
Per questa potente carica sintetica di carattere metafisico e tradizionale, che ha recentemente trovato compendio teorico, anche in Italia, nel già citato Noomachìa. Rivolta contro il mondo postmoderno, e per la postura filosofica illiberale, antimaterialista ed antiriduzionista che lo contraddistingue, il pensiero di Dugin trova a mio avviso sintonia e risonanza in Occidente, con tutti i distinguo del caso, nelle sole opere del suo brillante, erudito e poligrafo amico francese Alain de Benoist e del visionario – ma ai più dimenticato – Jean Parvulesco, il cantore della “Stella dell’Impero Invisibile”, per usare una definizione dello stesso Dugin”.
Il volume Platonismo politico contiene un interessante dialogo tra Dugin e Henry-Lévy. Quali i punti di forza e di debolezza dei due pensatori?
“Il 21 settembre 2019, l’Istituto Nexus di Amsterdam ha celebrato il suo 25° anniversario con un simposio pubblico dal titolo The Magic Mountain Revisited: Cultivating the Human Spirit in Dispirited Times (La montagna incantata rivisitata: coltivare lo spirito umano in tempi di scoramento), sulla scia del romanzo La montagna incantata di Thomas Mann. Il Simposio si è aperto con il citato duello intellettuale, presentato come la rivisitazione nel XXI secolo dei famosi dibattiti tra Settembrini e Naphta nel romanzo di Mann.
I temi filosofici e geopolitici discussi dai pensatori – assurti mediaticamente a emblemi di due fazioni antitetiche: il liberale progressista politicamente corretto Henry-Lévy vs il tradizionalista antiliberale politicamente scorretto Dugin – sono numerosi, e non possiamo certo sintetizzarli qui. Tuttavia, al cuore del dissidio delle due visioni del mondo, forse origo prima delle rispettive prese di posizione in ambito politico e internazionale (su cui si è giocata buona parte del dibattito), è l’interpretazione della questione del nichilismo, su cui mi piacerebbe brevemente soffermarmi. Dugin ed Henry-Lévy, infatti, si sono rispettivamente accusati di nichilismo, l’“ospite inquietante” dell’Occidente”.
Il nichilismo è un tema ricorrente nella speculazione filosofica novecentesca e poi dei nostri giorni…
“Dugin riprende esplicitamente la nozione dall’opera di Friedrich Nietzsche e mostra di conoscere il carattere bifronte del fenomeno, per come affrontato dal filosofo di Zarathustra e successivamente ripreso da Martin Heidegger; esiste un nichilismo passivo ed uno attivo: il primo coincide con la perdita di fiducia nei valori tradizionali e nella verità metafisica; il secondo “dice di sì” al tramonto del mondo passato e, riconoscendo in sé la sorgente di quello futuro, lo fonda come legislatore di senso secondo la volontà di potenza. Il sistema liberale globale rappresenta, secondo Dugin, sulla scorta della scuola rivoluzionario-conservatrice, l’inveramento socio-politico del nichilismo, con la piena disgregazione, in Occidente, dell’Europa tradizionale”.
Il filosofo francese?
“Henry-Lévy sembra invece utilizzare il concetto di nichilismo secondo un’accezione più comune e divulgativa: nichilista è l’individuo oscuro e sulfureo che vuole il nulla – la morte, la stasi, il male, dunque l’opposto del progresso e della libertà democratica utopisticamente intesa. Ne deriva che a essere nichilisti, per l’intellettuale francese, non sono gli abitanti dello spirito moderno (come nella tradizione filosofica postnietzscheana), bensì Dugin, gli eurasiatisti e i conservatori, ossia i nemici della “società aperta”, per citare Popper. Henry-Lévy afferma infatti, con grande pathos ma scarsa precisione filosofica, che “la migliore definizione di nichilismo (…) è la Russia, con i suoi ventiquattro milioni di morti durante la Grande Guerra Patriottica. È l’Europa, occupata dal nazismo. E sono gli ebrei, il mio popolo, quasi sterminato, ridotto al nulla dai peggiori nichilisti di tutti i tempi. Sì, c’è una chiara definizione di nichilismo, e cioè: coloro che hanno commesso questi crimini. E queste persone, questi nazisti non sono venuti dal cielo. Scaturivano da ideologi. Da Carl Schmitt. Da Spengler. Da Steward Chamberlain. Da Karl Haushofer. Tutte persone che, mi spiace doverlo notare, a lei piacciono, che lei cita, e dalle cui parole trae ispirazione. Pertanto, quando dico che lei è un nichilista, quando dico che Putin è un nichilista, quando dico che a Mosca c’è un clima malsano di nichilismo, che provoca, tra l’altro, delle vere morti – Anna Politkovskaya, Boris Nemtsov, e tanti altri, uccisi a Mosca o a Londra – lo dico sul serio. Intendo dire che, ahimè, su questa grande civiltà russa di oggi, nella grande Russia, sta soffiando un cupo, oscuro vento di nichilismo nel vero senso del termine, che è un senso nazista e fascista”.
Come replica Dugin?
“Dugin incassa con efficacia l’accusa dell’avversario rinvertendo i termini della questione: ammette esplicitamente di essere nichilista, ma solo per il suo rifiuto della “universalità dei valori occidentali moderni” e del pregiudizio “che l’unico modo di interpretare la libertà sia rappresentato dalla libertà individuale, e che l’unico modo di interpretare i diritti umani sia quello di proiettare una versione moderna, occidentale e individualistica di ciò che significa essere umani sulle altre culture”. Il nichilismo di Dugin è quello attivo che decostruisce i dogmi dei soloni della modernità per edificare nuove tavole di valori – secondo princìpi ispirati alla chiarezza apollinea del Platonismo politico. Precisando inoltre che a essere propriamente nichilista, in senso teoretico, è il moderno nella sua totalità – il quale comprende i regimi citati da Henry-Lévy, ma anche la società liberale contemporanea – Dugin mostra una comprensione ben più radicale dello Zeitgeist a noi coevo, rivelando un pensiero tanto lucido quanto eccentrico”.