INTRODUZIONE A NOOMACHÌA. LEZIONE 5. IL LOGOS DI DIONISO

Nella precedente lezione [1] abbiamo individuato e analizzato un momento molto importante nell’istoriale europeo [2], che definisce la struttura principale della Noomachìa europea. La struttura del momento della Noomachìa è la chiave per comprendere il nostro essere storico, per capire chi siamo. Abbiamo visto come la chiave per interpretare la storia europea nella sua dimensione ontologica ed esistenziale consista nel seguire e osservare come si sviluppa nelle varie epoche il processo di interazione conflittuale di due orizzonti esistenziali contrapposti. Abbiamo altresì osservato come tale conflitto sia basato sulla mutua reinterpretazione delle stesse strutture simboliche, mitologiche e religiose da due prospettive tra loro opposte – in ciò si manifesta precisamente la Noomachìa nel suo senso più autentico, cioè come conflitto semantico. Il Logos di Cibele cerca di reinterpretare le stesse figure o di imporne delle proprie nel contesto della commistione culturale risultante dalla sovrapposizione dei due Logoi apollineo e cibeliano. Possiamo definirla la lotta per il genere della divinità, la quale può essere interpretata nella prospettiva cibeliana e materialistica, oppure in modo spiritualistico, patriarcale, celeste, verticale, in definitiva indoeuropeo nel suo senso originario [3].

 

1. Il regno di Dioniso

 

Il «terreno di scontro» dei due spazi esistenziali – paleo-europeo e turanico – crea un nuovo tipo di struttura, una terza struttura per la precisione. Nel senso più autentico, il Logos di Apollo è rappresentato dalla società turanica nomade; analogamente, il Logos di Cibele nella sua forma più pura è rappresentato dalla società agricola, sedentaria e matriarcale dell’«Europa Antica». Ma dall’incontro di questi due spazi esistenziali, viene a crearsi una nuova dimensione, che costituisce precisamente il campo di Dioniso, dove il concetto patriarcale dell’uomo discende nelle profondità della Madre. Ciò che appartiene al Cielo giunge al centro della Terra. Dioniso diventa così il signore della Terra, come Zagreo nella mitologia greca, destinato a regnare sul mondo per volere di Zeus.

 

La struttura puramente apollinea non ha alcun contatto con la materia che caratterizza il Logos di Cibele. È completamente vergine, incontaminata. Appartiene al Cielo, al giorno, alla luce. L’ordine di Apollo è l’ordine del Padre, della bellezza, del rigore metafisico. È la legge del Paradiso, delle idee platoniche, delle stelle. Ma quando il Sole giunge sulla Terra, si apre una nuova dimensione, che corrisponde precisamente al livello di Dioniso. Abbiamo dunque a che far con un campo completamente nuovo della realtà, in cui si manifesta un nuovo Logos. Quest’ultimo può essere considerato il prodotto dell’incontro tra l’orizzonte turanico e quello preindoeuropeo, ma esso può anche manifestarsi in modo del tutto autonomo, come un terzo Logos a se stante che non deriva dall’incontro di altri due Logoi. Questo è il caso di alcune culture non europee, ad esempio cinese o pigmea. I cinesi e i pigmei africani hanno una società puramente dionisiaca, caratterizzata da una struttura noologica originale e autonoma che non è data dalla sovrapposizione di due orizzonti esistenziali pregressi. Così, mentre nella società indoeuropea Dioniso scaturisce da e rappresenta il teatro di scontro di due Logoi contrapposti, è possibile che in alcune società non indoeuropee esistano al contrario strutture fondate sulla piena e assoluta dominazione del Logos dionisiaco, che sorge in modo completamente autonomo dagli altri. Ecco perché parliamo di tre Logoi, e non di due [4].

 

In senso etnosociologico, il Logos di Dioniso si traduce nel processo fondamentale che si è andato sviluppando nel campo della terza funzione indoeuropea, dove ha avuto luogo una sintesi tra la terza funzione pastorale e mandriana delle tribù turaniche e la società sedentaria, agricola e matriarcale. Questo segmento della società, la casta contadina europea, rappresenta lo spazio sociale di Dioniso.

 

Il regno di Dioniso è costituito dal mondo agricolo. Egli è il dio del vino, oltre che dei sacrifici animali. E nei misteri eleusini, viene sempre accompagnato da Demetra, che gioca in essi un ruolo centrale. Dioniso e Demetra sono entrambi divinità e figure del mondo agricolo e costituiscono un’importante dualità. I misteri eleusini ruotano infatti attorno al pane e al vino, il vino d’uva rappresentato da Dioniso e la spiga di grano rappresentato da Demetra. Questa coppia costituita dalla Madre e dal Figlio celeste – il quale rappresenta il seme patriarcale non creato da lei ma posto in lei, al centro della Terra, al fine di risorgere e tornare all’origine celeste – rappresenta un nuovo modo di interpretare l’agricoltura, una concezione patriarcale dell’agricoltura stessa.

 

Demetra non coincide con Cibele ma è il frutto di una concezione completamente diversa di ciò che è la Madre Terra. Nello specifico, Demetra rappresenta l’interpretazione patriarcale della Madre Terra; una Madre Terra vista da una dimensione superiore e non interna ad essa. È una divinità epictonica – si trova al di sopra della superficie terrestre – e non ipoctonica. È la madre dei campi di grano coltivati, con le spighe dirette verso l’alto. Essa è dunque aperta alle influenze del Cielo: rappresenta una figura della Grande Madre «domesticata», che riconosce la dimensione trascendente, i princìpi trascendenti del Cielo e del Padre, e si sottomette ad essi. In sintesi, Demetra è la Madre in senso patriarcale, inglobata nella società patriarcale e accettata sotto queste condizioni precisamente come lo è stata l’agricoltura nella società indoeuropea sedentarizzata. La transizione dalla figura di Cibele a quella di Demetra corrisponde al passaggio dalla Madre selvaggia, che crea autonomamente il mondo, alla Madre domesticata, che invece assiste il seme paterno nella crescita. Si tratta di concezioni differenti del principio femminile.

 

Nei misteri eleusini di origine tracica, osserviamo dunque una transizione dallo spazio esistenziale puramente cibeliano allo spazio patriarcale demetrico della società agricola indoeuropea. Ed è qui che appare Dioniso, una figura completamente nuova che rappresenta la trascendenza immanente – non è Apollo, ma non si tratta neanche di Attis nel ciclo cibeliano –, qualcosa che proviene dal Cielo e giungere al centro della Terra al fine di «salvarla» dai suoi aspetti caotici, gravosi, cibeliani, purificandola con il vino, il cui mistero rimanda al mistero del sangue di Dio, disceso sulla Terra per la Salvezza del mondo. Così, il vino rappresenta Dioniso in quanto liberatore dalla Grande Madre. La liberazione dalla Grande Madre e il conseguente «ritorno» – l’ascensione all’origine celeste – è ora possibile, ed è incarnata precisamente da Dioniso. Noi possiamo morire, ma con Dioniso ascendiamo. Si tratta di una dimensione trascendente molto importante, che fa il suo ingresso nel contesto della società matriarcale sedentaria agricola.

 

Vi è un altro aspetto interessante nel ciclo mitologico di Dioniso. C’è un momento in cui le baccanti, gruppi di donne seguaci di Dioniso, ricevono la sua chiamata. Esse ad un certo punto odono un sibilo, una voce silenziosa che solo le donne iniziate al suo culto possono percepire. Si tratta di un invito ad andare sui monti e nelle foreste. Le baccanti, udita la chiamata di Dioniso, diventano invasate, e si dirigono in preda a furore estatico fuori dalla città, danzando e vagando, e squartando gli animali (sparagmós) per mangiarne la carne cruda, al fine di entrare in comunione con il dio. Questo stato mentale invasato è molto simile a quello che caratterizza le orge matriarcali, ma con una differenza fondamentale: in questo caso appare una figura maschile trascendente e si avverte la profonda sensazione dell’esistenza e dell’arrivo del Salvatore. Quest’ultimo non è una creazione autonoma dell’androgino femmineo Agdistis, come avviene nel ciclo di Cibele con Attis, ma rappresenta l’apparizione di un seme trascendente che dunque non è parte della Grande Madre. Così, il furore femminile incontra la figura maschile puramente trascendente, e in ciò tali pratiche si differenziano completamente dalla precedente tradizione orgiastica. È proprio l’incontro con questo aspetto trascendente, verticale, a costruire l’essenza stessa della chiamata di Dioniso.

 

2. Il «conflitto delle interpretazioni»

 

Un punto fondamentale riguarda l’interpretazione semantica di Dioniso. Nella tradizione indoeuropea, noi non ci imbattiamo mai nella manifestazione pura di Dioniso. Si tratta sempre di Dioniso inteso come fratello di Apollo, come latore di luce. Noi indoeuropei interpretiamo la figura e il Logos di Dioniso unicamente in prospettiva apollinea, non abbiamo altri Dioniso. Vi è un solo Dioniso nella nostra tradizione, ed è il Dioniso dell’orizzonte esistenziale indoeuropeo. Tuttavia esiste sempre la possibilità di reinterpretare questa figura nella prospettiva cibeliana. Cibele cerca infatti continuamente di riconsiderare l’arrivo di questa figura maschile trascendente e patriarcale nella sua antica prospettiva matriarcale, sostituendo Dioniso con Attis o Adone, anch’esso figura maschile del ciclo matriarcale. E questo lieve mutamento di significato rovescia ogni cosa. Ecco perché Dioniso rappresenta il terreno di scontro tra due Logoi contrapposti nel contesto europeo: l’interpretazione di Dioniso da parte degli indoeuropei è apollinea, ma essi operano in uno spazio molto pericoloso, dove il potere della Grande Madre e della sua ermeneutica è fortissimo, e da ciò scaturisce un conflitto semantico che sta alla base della Noomachìa europea.

 

Ciò si deve non solo al fatto che il sostrato cibeliano sia stato inglobato con la sedentarizzazione degli indoeuropei, ma anche all’origine del culto dionisiaco stesso, da rintracciarsi precisamente in una tradizione matriarcale preindoeuropea. Questa è una delle ragioni per cui non vi è alcun particolare testo o mito dedicato esclusivamente a Dioniso. La maggior parte delle pratiche, dei miti e delle figure del culto dionisiaco sono state mutuate da pratiche e culti specifici della Grande Madre. Ciò è ampiamente descritto in due libri di cui consiglio la lettura: Dioniso[5] di Karl Kerényi e Dioniso e i culti predionisiaci[6] di Vjačeslav Ivanov (in lingua russa). Quando Karl Kerényi, autore ungherese e amico di Mircea Eliade, cerca di rivelare le fonti del culto di Dioniso, egli arriva alla conclusione che prima di questa figura esisteva qualcosa di molto simile, con pressoché i medesimi cortei di baccanti invasate, gli stessi riti, le stesse orge, e così via, ma il tutto era inserito in un contesto completamente differente, nell’ambito di un culto puramente matriarcale.

 

Occorre prestare particolare attenzione a questo punto. Nel campo dei riti, delle leggende e dei miti di Dioniso, alle origini vi è una tradizione matriarcale, successivamente trasformata dall’arrivo del nuovo orizzonte esistenziale indoeuropeo. Ciò implica che il culto di Dioniso, e il relativo Logos nel contesto indoeuropeo, scaturisca dalla metamorfosi che la struttura e il culto della Grande Madre subiscono a seguito della discesa del principio patriarcale trascendente. Le pratiche e i simboli dionisiaci appartengono originariamente ad una tradizione predionisiaca matriarcale. Non a caso, a volte Dioniso appare nelle fattezze di un serpente, o circondato dalle figure di satiri metà uomini metà bestia, normalmente associati alla Grande Madre; allo stesso modo, anche i cortei dionisiaci rappresentavano la continuazione dei cortei legati alla Grande Madre, con gli stessi rituali e simboli. Questo implica che gli indoeuropei turanici non hanno conquistato solo uno spazio fisico – villaggi, insediamenti, popolazioni, ecc. – ma anche il territorio del mito, con la trasformazione semantica della figura di Cibele – insieme a tutti i simboli e le pratiche di adorazione che la circondano – nelle figure di Demetra e Dioniso. Detto altrimenti, i conquistatori indoeuropei si sono appropriati di uno spazio mitologico preindoeuropeo originariamente ad essi estraneo, imponendovi la propria interpretazione.

 

In senso metafisico, la tradizione neoplatonica presenta Dioniso come l’intelletto, cioè l’elemento dionisiaco-divino che l’uomo porta in sé. Il principale mito dionisiaco è quello in cui il piccolo Dioniso, giovinetto figlio di Zeus, viene catturato nell’Olimpo dai crudeli Titani, che lo smembrano e lo divorano. Quindi interviene Zeus incenerendo i Titani e facendoli precipitare nel Tartaro, e dai loro fumi secondo una versione tardiva del mito viene generato l’uomo, il quale pertanto porta in sé due elementi, uno titanico è uno divino, rappresentato precisamente da Dioniso. Nell’interpretazione neoplatonica di Dioniso, esso è dunque l’anima o il principio spirituale presente in ogni uomo, una sorta di scintilla della coscienza, dacché nell’interpretazione orfica la natura umana è duale: da un lato è titanica, relativamente al corpo e agli aspetti materiali, mentre dall’altro è dionisiaca, relativamente all’intelletto. Possiamo dire che Dioniso rappresenta il concetto dell’intelletto immanente, che si oppone all’altro lato della natura umana che è titanico.

 

È precisamente questo il problema della metafisica di Dioniso e in definitiva della metafisica della cultura indoeuropea: essa è duplice, poiché racchiude due orizzonti, uno titanico e l’altro olimpico. E Dioniso non è che un altro nome per indicare l’essere umano inteso come essere culturale nel contesto della sovrapposizione di questi due orizzonti esistenziali, dacché egli è il terreno di scontro tra il patriarcato e il matriarcato integrato nella nostra cultura. Il problema di Dioniso è il problema della cultura indoeuropea, ed è la chiave per comprendere la Noomachìa di tutte le società indoeuropee, sia di quelle europee occidentali che di quelle asiatiche, poiché in Iran e in India vi è esattamente la stessa struttura culturale problematica (certo, non abbiamo una figura come Dioniso nella cultura indiana, ma abbiamo Siva; non c’è una diretta equivalenza, ma troviamo sempre lo stesso campo di interazione conflittuale tra due Logoi).

 

Nella società indoeuropea, il Logos di Dioniso è caratterizzato da una connaturata instabilità. In altre culture, come quella cinese o pigmea, e fino ad un certo punto anche azteca con la figura del serpente piumato Quetzalcóatl, la figura di Dioniso è stabile. Nella società indoeuropea al contrario il campo dionisiaco è instabile poiché è conflittuale, ha luogo in esso una lotta tra mente e corpo che scaturisce non dalla loro natura oggettiva ma dalla loro interpretazione: la mente o intelletto, considerato come qualcosa che appartiene al Logos di Apollo e la cui rappresentazione immanente è Dioniso, confligge col corpo, che invece viene visto come qualcosa di materiale, di gravoso, un corpo che ancora una volta non corrisponde alla materia di per sé – tutto ciò con cui abbiamo a che fare non attiene alla natura oggettiva delle cose ma è la proiezione diparadigmi– bensì all’interpretazione cibeliana di ciò che è il corpo. Questa non è l’unica interpretazione possibile. Altre culture posseggono una concezione completamente diversa del corpo, un corpo senza materialità. Il problema indoeuropeo è invece rappresentato proprio la gravosità o materialità del corpo, una evidente traccia del Logos di Cibele. Così, l’orizzonte esistenziale di Cibele detta la qualità del nostro corpo, caratterizzandolo come qualcosa di gravoso che limita l’anima, ma ciò – torno a ripetermi – non è una qualità naturale bensì una costruzione culturale.

 

La figura di Dioniso nella società indoeuropea è dunque instabile: il centro del Logos di Dioniso nella nostra cultura è normalmente spostato verso il Logos apollineo, dimodoché noi indoeuropei non ci raffrontiamo con Dioniso in quanto tale, ma come abbiamo già detto lo conosciamo in prospettiva esclusivamente apollinea, come fratello di Apollo. Per capire la natura problematica di Dioniso possiamo affermare che, in termini figurativi, il centro della concezione dionisiaca del mondo è di norma traslato verso l’alto, appartiene all’universo apollineo che domina la cultura indoeuropea, e ciò rende Logos di Dioniso una sorta di continuazione o «immanentizzazione» di Apollo, la dimensione immanente del Logos apollineo. Non si tratta una regola o legge universale, ma di una caratteristica che attiene esclusivamente alla civiltà indoeuropea. Nella nostra cultura, Dioniso è spostato in alto. Non è dunque puro Logos di Dioniso, ma sarebbe più corretto denominarlo Logos apollin-dionisiaco.

 

Quello che abbiamo appena descritto è un caso «classico» nella cultura indoeuropea. Tuttavia, rappresentando Dioniso il terreno di scontro e lo spazio intermedio tra due Logoi, vi è sempre la possibilità di una lettura opposta. Nei miei volumi del progetto Noomachìa, ho identificato questo come probabilmente il principale problema metafisico di tutta la cultura e la storia indoeuropea. Vi è sempre il tentativo da parte di qualcosa presente all’interno della nostra stessa cultura di collocare il centro del Logos di Dioniso in un’altra direzione, al di sotto della linea che separa il Logos di Apollo dal Logos di Cibele. Ho chiamato questa ipotesi il «doppio nero» di Dioniso. Non si tratta del Dioniso che conosciamo di norma nella nostra tradizione indoeuropea, ma del prodotto della reinterpretazione o riappropriazione cibeliana di Dioniso, corrispondente alle figure di Adone o di Attis, di Lucifero o del titano Prometeo, comunque di una figura molto prossima a Dioniso. La figura del doppio nero non corrisponde al caso classico, alla norma, è totalmente opposta alla visione del mondo indoeuropea, ma è sempre presente, come un’ombra metafisica di Dioniso, e forse è anche più antica di Dioniso stesso, appartenendo all’universo della Grande Madre.

 

Per comprendere al meglio problema metafisico di Dioniso e il conflitto che ha luogo nel suo campo, possiamo analizzarlo sotto un’altra ottica. Poiché Dioniso è qualcosa di dinamico – non è la luce eterna che brilla in perpetuo, ma la luce che diventa oscurità, che si attenua e svanisce per poi brillare nuovamente; è il mistero del seme, che muore e risorge come germoglio di grano – possiamo considerarlo nei termini di un «ciclo». Il ciclo di qualcosa che appartiene ad un livello superiore, discende al centro della notte, nell’oscurità della Terra, per poi risorgere e ascendere al suo luogo originale al vertice della creazione.

 

Esiste però sempre la possibilità di considerare un ciclo sostanzialmente identico ma che parte dal punto opposto. Vi sarà dunque qualcosa che appartiene al livello inferiore, che viene partorito dalla Grande Madre, ascende assaltando il Cielo, depone gli Dèi e li sostituisce. È precisamente il genere di ascesa dell’elemento prometeico titanico che abbiamo denominato «doppio nero». Ma il fato dei Titani è infine quello di cadere come Prometeo. Essi possono vincere momentaneamente gli Dèi, ma sono destinati alla caduta: Tifeo ad esempio sopraffà Zeus nella mitologia greca, ma dopo un iniziale successo ha la peggio e viene precipitato e imprigionato sotto la Sicilia. Generalizzando, abbiamo a che fare con qualcosa che sta ascendendo, raggiunge il punto più alto, dopodiché precipita. Nei suoi tratti principali, si tratta sostanzialmente dello stesso scenario del ciclo di Dioniso, dello stesso racconto, ma che procede dalla prospettiva opposta. Il primo racconto parte dal Cielo, prosegue con una discesa sulla Terra e termina con un ritorno al Cielo, mente il secondo inizia dalla Terra e prosegue con la conquista del Cielo, cui fa seguito una caduta (la caduta degli angeli, di Prometeo, dei Titani, ecc.). I Titani rivendicano l’Olimpo, è lì che smembrano Dioniso, ma poi vengono fulminati da Zeus e precipitano nel Tartaro.

 

Al cuore di questo racconto vi è una Noomachìa che possiamo leggere da entrambi i lati: il Logos di Apollo e il Logos di Cibele concordano sulla struttura principale di questa titanomachìa, ma essi interpretano tale processo da due punti di vista contrapposti, da due prospettive speculari. Lo stesso racconto, due interpretazioni. Questo dà al problema del doppio nero di Dioniso tutta la sua misura metafisica. Operando con la logica del ciclo, ci troviamo di fronte a due possibilità di lettura, con due diverse strutture semantiche. Insieme alla comparsa di Dioniso nella società frutto della sovrapposizione dei due orizzonti esistenziali, emerge dunque il problema aperto della sua natura. La natura di Dioniso nella nostra tradizione è assolutamente instabile, è dinamica, contraddittoria e dialettica. E non c’è solo un modo per interpretarla; essa al contrario ammette due versioni interpretative. Dioniso può essere allo stesso tempo il simulacro di Dioniso; può essere Adone nello stesso momento in cui è Dioniso; può essere predionisiaco e dionisiaco allo stesso tempo.

 

Così, il problema della civiltà europea è il problema di Dioniso. Si tratta di una questione aperta – non vi è nulla che possiamo dare per acclarato una volta per tutte, né possiamo risolvere tale questione astrattamente dacché noi, in quanto indoeuropei, siamo immersi questo processo. Come affermavano i neoplatonici, Dioniso rappresenta il nostro stesso intelletto. Il quale, in questa nostra analisi noologica, possiede il suo «doppio nero» al proprio interno. La nostra mente, la nostra anima, ha una natura duale essendo dionisiaca. È divisa. Ha a che fare con qualcosa ad essa opposta ma che è presente al suo interno: il problema del simulacro è integrato nella mente indoeuropea, perché quest’ultima è duale basandosi sulla sovrapposizione di due orizzonti esistenziali. Ciò significa che non possiamo essere sicuri di dove siamo titanici e di dove siamo dionisiaci, non possiamo dire con certezza se abbiamo a che fare con Dioniso o con Adone, con il vero intelletto o con un suo simulacro. Cerco di spiegarmi. La mente è dionisiaca, il corpo è titanico. Questa è in sostanza la descrizione orfica. Tuttavia, esiste anche la possibilità del corpo dionisiaco e della mente titanica, poiché corpo e mente non sono così chiaramente separati, sono piuttosto in uno stato di mescolanza – commistione dovuta al fatto che mente e corpo sono la proiezione del Logos (nel mondo umano nulla può esistere senza Logos, tutto ciò con cui abbiamo a che fare è il prodotto della proiezione di paradigmi). Vi è il corpo materiale e la mente spirituale, ma abbiamo anche il corpo spirituale, rappresentato ad esempio dal corpo della resurrezione nella dottrina cristiana, e vi è la mente materiale, la mente titanica, rappresentata dalla razionalità meccanicistica e calcolante. Essitono due corpi e due menti in noi. Ciò costituisce il problema al centro della dialettica della nostra cultura, un problema che però è interno a quest’ultima poiché il doppio di Dioniso non esiste al di fuori di essa.

 

Questo è il punto più importante relativo al Logos di Dioniso. Studiare il problema del «Logos oscuro» dionisiaco significa andare alle radici della problematica della storia europea e decifrare la chiave del problema dell’uomo europeo o, oserei dire, indoeuropeo. Ed è l’introduzione del «Logos nero» di Cibele che ci permette di farlo. La scoperta del terzo Logos è una rivoluzione metafisica, grazie alla quale tutto acquista un senso. È infatti grazie all’ingresso del Logos cibeliano, che scopriamo la possibilità dell’esistenza del «doppio nero» titanico di Dioniso, e questo ci permette di vedere come in precedenza, prima dello sviluppo della Noologia e dell’introduzione del terzo Logos, vi sia stato un travisamento, un’interpretazione fondamentalmente errata di Dioniso nella sua identificazione con un Titano, una perversione oscura, un aspetto puramente negativo, il rovesciamento della luce o del «Logos bianco» di Apollo. Introducendo il Logos di Cibele, ogni pezzo del puzzle va al suo posto e, cosa più importante, tocchiamo con mano l’instabilità di Dioniso.

 

In definitiva, abbiamo a che fare con due spazi ermeneutici integrati nella figura di Dioniso e il «conflitto delle interpretazioni» (per usare una terminologia cara a Paul Ricœur) è aperto, dacché vi è sempre la possibilità di una sostituzione, di una particolare perversione o deviazione metafisica della struttura semantica.

 

3. Logoi e regimi dell’immaginario

 

Prima di concludere, vorrei fornire un esempio di cosa si intende per approccio dionisiaco. Per farlo, richiamerò brevemente la ricerca sull’immaginario di Gilbert Durand [7]. Si tratta di una teoria molto complessa, ma cercherò di spiegarla nel modo più semplice possibile.

 

Gilbert Durand è stato un autore francese molto importante, fondatore di una vera e propria sociologia dell’immaginazione, avendo egli sviluppato una versione davvero originale della struttura dell’immaginario. Detto in termini sintetici, secondo Durand l’uomo è immaginazione. Tutto ciò con cui abbiamo a che fare è costituito da strutture immaginarie. Durand ha studiato le radici dell’immaginario e come l’immaginazione opera in noi, essendo essa non il riflesso di oggetti esistenti ma piuttosto il contrario – gli oggetti sono il prodotto della nostra immaginazione. Inizialmente noi immaginiamo qualcosa, dopodiché ci raffrontiamo con ciò che abbiamo appena immaginato. Vale pressoché lo stesso per la fenomenologia. Questo ci porta ad Husserl e al suo concetto dell’intenzionalità. Secondo Husserl, l’atto intenzionale è l’atto diretto verso qualcosa che esiste al di fuori della nostra mente ma non ha qualità in sé, poiché ogni qualità con cui abbiamo a che fare è all’interno della nostra mente. Husserl chiama questo «noema». Il processo dell’atto intenzionale è «noesi», mentre «noema» è ciò che viene pensato. Così, le qualità degli oggetti con cui abbiamo a che fare sono intrinseche al nostro processo del pensiero e non esterne ad esso. Durand si avvicina in modo differente a questo approccio fenomenologico. Egli parla di regimi dell’immaginario affermando che la nostra immaginazione lavora con tre regimi, e ciò è molto simile al concetto dei tre Logoi. Ora vedremo perché.

 

3.1 Il diurno

 

Il regime dell’immaginario è una sorta di stato intrinseco della struttura mentale che crea differenti sequenze di immagini, simboli e strutture di base. Il primo regime è il regime diurno. Si tratta del regime del giorno, della luce, basato sul concetto di una stringente dualità e sugli archetipi del «distinguere»: vi è una rigorosa e assoluta differenziazione, dacché il regime del diurno separa, non unisce. Tutto è chiaro come la luce diurna. A questo regime è strettamente connessa la verticalità, legata secondo Durand al riflesso posturale del bambino. L’atto del porsi in piedi, in posizione verticale, viene considerato nell’immaginario come un volo, una sorta di ascensione eroica, ecco perché questo è il regime dell’orientazioneverticale.

 

Il regime diurnoè anche il regime guerriero, del patriarcato. Ciò che abbiamo detto sul Logos di Apollo può facilmente essere applicato a questo regime dell’immaginario. Difatti, secondo Durand, esso rappresenta la lotta contro la notte, la morte, l’oscurità; una sorta di guerra apollinea perpetua. Nel campo dell’infermità mentale, tale regime corrisponde allo stato paranoico. La paranoia è l’assolutizzazione del diurno, in cui tutto viene separato fino al livello atomico, con una continua  distruzione dell’oggetto parallelamente al consolidamento del soggetto. Così agisce il guerriero, combattendo senza sosta e distruggendo con la sua spada tutto ciò che incontra; la spada è il diurno, ciò che separa, non uccide ma divide, distruggendo l’oggetto e consolidando il soggetto.

 

Pertanto, il regime diurnoè in un certo senso apollineo e indoeuropeo. Secondo Durand, il Logos nasce da questo regime. Il nostro pensiero si basa sullo sviluppo di questo tipo di immaginario. In questo regime opera la nostra ragione, il cui principale esercizio è quello della differenziazione. La  negazione è anch’essa diurna, perché negare significa separare: ciò che è da ciò che non è, ciò che esiste da ciò che non esiste, ecc. Il nostro processo del pensiero è in sintesi basato sulle dualità, sulle coppie, sulle separazioni. Noi immaginiamo le cose distinguendole, scindiamo l’oggetto e consolidiamo il nostro soggetto. Tutti ci sono avversi ma siamo noi a trionfare sugli altri. Ciò porta alla creazione della gerarchia, della verticalità, con il soggetto più paranoico al vertice della società – lo Zar, il Re, che distrugge tutto e consolida se stesso. Possiamo dire che la paranoia è la malattia del Re: gli altri pianificano di destituirlo – e ciò talvolta avviene – ma egli prosegue dritto per la sua strada, verso la battaglia finale con la morte e con l’oscurità, poiché il Re è circondato da ombre e il suo destino è quello di combatterle, di uccidere i nemici, di consolidare tutto ciò che è all’interno del proprio dominio e distruggere tutto ciò che si trova al suo esterno. Questa è la normale attitudine guerriera.

 

3.2 Il notturno mistico

 

Ma secondo Durand vi sono altri due regimi dell’immaginario, entrambi afferenti alregime notturno. Il primo è il notturno drammaticoe il secondo è il notturno mistico. Vediamo di capire di cosa si tratta.

 

Nel regime notturnola nostra mente funziona in modo completamente diverso. Tale regime si basa non sugli archetipi del distinguere ma su quelli dell’«unire». La nostra mente non separa ciò che è al di fuori consolidando ciò che è al nostro interno come nel caso del diurno, ma fa sostanzialmente l’opposto: unisce tutto ciò che è attorno a noi e divide noi stessi. Portato all’estremo, tale approccio sfocia nell’ambito dell’infermità mentale nella schizofrenia. L’attitudine schizofrenica consiste infatti nel separare l’interiore – ci sono voci, differenti ego, ecc. – e unire l’esteriore, considerando il mondo come un tutt’uno che si trova sempre nel giusto ed è più forte del soggetto, il quale al contrario è problematico e debole. Ecco in cosa consiste il regime notturno. Esso non si basa sulla logica ma sulla retorica e sull’eufemismo. Ad esempio, quando qualcosa ci urta, diciamo di esserne felici e soddisfatti. Quando ci manca qualcosa, lo consideriamo una sorta di dono. Tale processo, denominato eufemizzazione, consiste nel chiamare le cose con nomi completamente diversi aventi significati opposti, al fine di evitare l’orrore che ci provoca l’impatto con una realtà di cui siamo terrorizzati. Avendo timore di tutto, compreso di noi stessi – non siamo sicuri neanche della nostra esistenza –, usiamo l’espediente di denominare tutto con nomi dal significato opposto. Chiamiamo l’oscurità, che temiamo, luce. Trattiamo ciò che ci minaccia come qualcosa di molto amichevole – «stai tranquillo, abbiamo qualcosa in comune, non sei così orribile, cerchiamo di trovare un denominatore comune». Non abbiamo a che fare con un’attitudine guerriera ma al contrario con una coscienza pacifista. Nel caso più estremo, quest’attitudine sfocia nella sindrome di Stoccolma: si è presi come ostaggio ma si passa dalla parte dei terroristi, condividendone le motivazioni, scoprendo improvvisamente che le loro rivendicazioni sono corrette; poiché è molto difficile sostenere questa posizione di assoluta dominazione da parte dell’altro, l’ostaggio dice a sé stesso: «essi non sono qualcosa d’altro, in fondo stiamo dalla stessa parte, sono bravi ragazzi». Così, ci si schiera con il male perché non è così malvagio, con la morte perché si tratta di un nuovo inizio, con la perdita perché rappresenta una forma di dono.

 

Ma nel campo del notturno, vi sono due forme. La prima forma è quella radicale, chiamata notturno misticoda Durand, e rappresenta la traslazione completa dell’oggetto in soggetto. Lo si potrebbe definire il tradimento completo di sé. Tutto è al di fuori. Al proprio interno non vi è nulla, se non la riflessione di ciò che è posto al di fuori. La luce è notte, l’alto è basso, il maschile è femminile, morire è vivere, e viceversa. Pura retorica. Si chiama qualcosa con un nome completamente differente, contraddittorio, e si è felici di ciò.

 

Il notturno misticocorrisponde al Logos di Cibele. Rappresenta l’assoluta dominazione di qualcosa che scaturisce dal tradimento di sé. Il soggetto non è consolidato, ma completamente dissipato nell’immaginario ed è il processo di dissipamento della mente che crea la materia o mondo esterno. Il soggetto è debole, la materia è forte. Ma la materia non esiste autonomamente, è la proiezione di questa debolezza. Inizia ad esistere come se fosse autonoma e indipendente, ma in realtà la sua esistenza deriva all’indebolimento del soggetto da parte dell’immaginazione, la quale può immaginare un soggetto non solo forte ma anche debole.

 

Scaturisce tutto da un movimento interiore. Ecco perché il concetto di regime dell’immaginario è così vicino al concetto di Logos, e lo utilizzo nell’interpretazione delle differenti culture, religioni, e fenomeni storici.

 

3.3 Il notturno drammatico

 

La seconda forma del regime notturno è il notturno drammatico. Quest’ultimo non comporta un’eufemizzazione radicale ma sostanzialmente bilanciata, equilibrata. In questo regime non chiamiamo la notte giorno e il giorno notte; piuttosto, li chiamiamo tramonto o alba: né luce, né oscurità ma un gioco tra le due, qualcosa d’intermedio, che si svolge nell’ombra. Questo regime corrisponde al Logos dionisiaco. E qui ritroviamo la problematica di Dioniso, di cui ho già parlato, perché tale regime può essere interpretato come radicale oscurità che si finge luce o come luce che ad esempio non è abbastanza chiara.

 

Se il regime diurnoè paranoico e il regime del notturno misticoè schizofrenico, qual è l’infermità mentale che corrisponde al notturno drammatico? È la normalità! Cioè non vi è alcuna malattia mentale, poiché noi in situazioni normali ci muoviamo nel notturno drammatico, cioè adoperiamo un approccio dionisiaco alla realtà. A volte usiamo l’eufemizzazione, avvicinandoci al notturno misticoma rimanendo sempre nel campo del notturno drammatico; altre volte, adoperiamo la radicale separazione e differenziazione, avvicinandoci all’altro polo, il polo della luce. Cioè, usiamo entrambe le strategie allo stesso tempo. La malattia mentale inizia quando siamo attratti troppo da uno dei due poli, è così tutto nel nostro immaginario diventa troppo scuro o troppo chiaro.

 

In definitiva, dal punto di vista psicologico, il problema di Dioniso è quello delle strutture antropologiche del nostro immaginario. Possiamo terminare questa articolata analisi storica ed esistenziale del Logos di Dioniso, affermando che esso rappresenta il centro tra due poli corrispondendo al Dasein – l’Essere è apollineo, l’Esser-ci («being t/here» in inglese) è dionisiaco, dacché si trova al centro (t/here) tra Apollo (there) e qualcosa di puramente immanente (here) – ed ha parecchie affinità con ciò che Gilbert Durand ha denominato la forma drammatica del regime notturno.

 

[1] Aleksandr Dugin, Introduzione a Noomachìa. Lezione 4. Il Logos di Cibele, Geopolitica.ru, 30 agosto 2019. https://www.geopolitica.ru/it/article/il-logos-di-cibele

[2] Per la definizione di «istoriale» e di «spazio esistenziale», cfr. Id., Introduzione a Noomachìa. Lezione 2. Geosofia, Geopolitica.ru, 19 luglio 2019. https://www.geopolitica.ru/it/article/introduzione-noomachia-lezione-2-geosofia

[3] Id.,Introduzione a Noomachìa. Lezione 3. Il Logos della civiltà indoeuropea, Geopolitica.ru, 08 agosto 2019. https://www.geopolitica.ru/it/article/introduzione-noomachia-lezione-3-il-logos-della-civilta-indoeuropea

[4] Per una introduzione ai tre Logoi, cfr. Id., Introduzione a Noomachìa. Lezione 1. Noologia: la disciplina filosofica delle strutture dell’intelletto, Geopolitica.ru, 27 maggio 2019. https://www.geopolitica.ru/it/article/introduzione-noomachia-lezione-1-noologia-la-disciplina-filosofica-delle-strutture

[5] Karl Kerényi, Dionysos: Urbild des unzerstörbaren LebensLangen Müller, 1976. Trad. italiana: Dioniso: archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, Milano 1992.

[6] Vjačeslav Ivanov, Dionis i pradionistvo, 1923.

[7] Gilbert Durand, Les structures anthropologiques de limaginaire. Introduction à l'archétypologie générale, Dunod, Parigi 1969. Trad. italiana: Le strutture antropologiche dell’immaginario: introduzione all’archetipologia generale, Dedalo, Bari 1972. Cfr. anche Aleksandr Dugin, Sociologija voobrazhenija(Sociologia dell’immaginazione), Academic Project, Mosca 2010.

Trascrizione e traduzione a cura di Donato Mancuso.