INTRODUZIONE A NOOMACHÌA. LEZIONE 2. GEOSOFIA
Schede primarie
Transcription and translation by: Donato Mancuso
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Quella che segue è la seconda di dieci lezioni tenute dal Professor Aleksandr Dugin a Belgrado (marzo 2018) nell’ambito della scuola di geopolitica serba e dedicate all’introduzione al progetto Noomachìa. Trascrizione e traduzione a cura di Donato Mancuso. Fonte: https://www.geopolitica.ru/en/studio/introduction-noomahia-lecture-2-geosophy. Video: https://youtu.be/3hNuZL17WAQ.
Questa seconda lezione è dedicata alla Geosofia, termine derivante da due parole greche: γεω (“geo”, la terra), e σοφία (“sophia”, la sapienza o conoscenza). La Geosofia consiste nell’applicazione dei principi della Noologia allo studio delle specifiche culture e società. Si tratta di un’analisi civilizzazionale condotta con l’aiuto dei concetti dei tre Logoi. Abbiamo discusso, nella prima lezione [1] dedicata alla Noologia, dei tre mondi o universi collegati ai tre Logoi. Possiamo posizionare i tre Logoi su un asse verticale, potendoli rintracciarli in ogni cultura e dunque spiegare ogni cultura attraverso di essi. Ebbene, la Geosofia consiste nell’interrelazione di quest’asse verticale con gli aspetti dell’asse orizzontale corrispondente alle diverse culture.
1. Geosofia come multinaturalismo
L’idea della Geosofia è collegata a ciò che in filosofia e antropologia è chiamato prospettivismo, approccio sviluppato dall’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro.
L’uomo moderno occidentale ritiene che vi sia un solo mondo, il mondo fisico, e una sola cultura in grado di comprenderlo correttamente, la cultura europea occidentale moderna. Si tratta di una sorta di “verità” che implica un genocidio a tutti gli effetti delle altre culture, poiché coloro i quali non riconoscono questa verità e non seguono questa specifica cultura sono considerati sottosviluppati e dunque soggetti a colonizzazione e obbligati a conformarsi al modello dell’uomo bianco. Una visione prettamente coloniale, a cui si oppongono i multiculturalisti o postmodernisti, i quali asseriscono che vi è sì un solo mondo ma molteplici modi di interpretarlo. Rispetto alla visione puramente coloniale, questa impostazione concede la possibilità ad altri di pensarla in modo differente, ma alcuni antropologi hanno rilevato come la base ontologica di quest’unico mondo, che per i multiculturalisti ammette differenti interpretazioni, sia comunque la proiezione del pensiero europeo occidentale moderno sulla natura, cioè la concezione scientifica della natura europea che si assume essere la realtà oggettiva, interpretata poi soggettivamente e differentemente. In ciò consiste il multiculturalismo.
Sulla base di questa osservazione, nuovi antropologi hanno iniziato a creare un tipo di metafisica denominata “metafisica cannibale” attraverso cui viene distrutto questo concetto del mondo unico differentemente interpretato e sostituito con mondi differenti: in questo caso, ciò che i popoli afferenti a diverse culture asseriscono sul mondo non rappresenta più la loro interpretazione soggettiva dell’unico mondo oggettivo, come per i multiculturalisti, ma costituisce la corretta descrizione di cosa essi vedono e percepiscono del loro specifico mondo in cui vivono. Si tratta di un’approccio completamente nuovo e la Noologia e la Geosofia rappresentano gli esempi più radicali di questo riconoscimento della molteplicità dei mondi.
La Geosofia si fonda sul principio che ogni cultura crea un proprio mondo a sé stante. Così, non si può dare per scontato che per tutti il mondo sia fisicamente costituito da un geoide in rotazione attorno al proprio asse, poiché possono esservi altre idee del mondo – per alcune culture la Terra può essere piatta, per altre magari concava – e se coloro che appartengono a una determinata cultura pensano realmente di vivere in un mondo del genere, noi dobbiamo accettarlo, e non giudicarlo fin dall’inizio come un’interpretazione non corretta della realtà che noi supponiamo conoscere meglio di loro.
Tale principio geosofico può essere denominato “multinaturalismo”. Mentre nel multiculturalismo è presente il vecchio approccio razzista e colonialista di sempre, solo un po’ più edulcorato – “la nostra conoscenza è superiore alla tua, ma ti permettiamo di vivere con le tue illusioni” –, il multinaturalismo rappresenta un approccio antropologico completamente nuovo basato sulla dignità di ogni cultura – “tu stai vivendo in un mondo che per te è assolutamente reale e corretto, dunque noi non possiamo in alcun modo proiettare su di te la nostra differente visione; in altri termini quello in cui vivi è il tuo specifico mondo, non la tua interpretazione dell’unico mondo che noi conosciamo meglio di te, e al fine di comprendere la tua cultura è necessario accettare la tua verità senza ridurla al rango di «illusione», mettendoci anzi al tuo posto e assumendo totalmente la tua prospettiva”.
La Geosofia si basa su quest’idea che non esiste un solo spazio e una sola linea temporale; essa rifiuta l’approccio multiculturale per cui si permette ai popoli di differenti culture di interpretare il proprio territorio e la propria storia in modi diversi assumendo tuttavia che noi ne possediamo una comprensione migliore. Secondo la Geosofia, nel passaggio dalla nostra civiltà, dal nostro popolo, dalla nostra cultura, ad altri popoli, è necessario prima di tutto indagare su come questi ultimi concepiscano il mondo, guardandosi bene dal pretendere di spiegar loro come il mondo “nella realtà” sarebbe costituito.
La Geosofia non coincide con la nostra concezione della terra – “geo” – ma è l’idea che in ogni punto dello spazio vi sono diversi mondi coesistenti nello stesso contesto. Deleuze e Guattari hanno cercato di applicare quest’idea parlando di “geofilosofia”, ma l’hanno fatto dal loro punto di vista postmodernista occidentalecentrico liberal. Al fine di rimarcare la differenza fra il loro approccio eccessivamente dogmatico e l’approccio aperto della Noologia, ho pertanto introdotto il termine Geosofia.
L’idea della Geosofia è che al fine di studiare le altre culture sia necessario assumere completamente la loro concezione del mondo. In altri termini, non si dovrebbe in alcun modo proiettare su di esse la propria visione degli aspetti soggettivi e oggettivi della realtà ma cercare di comprendere cosa per tali culture (siano esse arcaiche o moderne, nordamericane o australiane e così via) è il mondo oggettivamente e soggettivamente – ammettendo che esse possiedano una distinzione del genere, il che non può esser dato per scontato dacché potrebbero esservi culture prive dei concetti di soggetto o di oggetto. Ad esempio, nei miei lavori di ricerca ho scoperto alcune culture molto particolari caratterizzate dall’assenza del concetto di soggetto, come i popoli arcaici abitanti l’estremo nord della Čukotka e della Kamčatka o alcune tribù nordamericane. Si tratta di qualcosa di incredibile per noi, come pure per gli africani, dal momento che la maggior parte delle culture africane si basa sul soggetto, sebbene di un tipo totalmente diverso dal nostro. In definitiva, esiste una grande varietà di culture, molte delle quali ben oltre la nostra capacità di immaginazione; cionondimeno occorre accettarle tutte come tali, nel modo in cui esse concepiscono se stesse, senza giudicarle né gerarchizzarle come fa l’antropologia evoluzionista.
Questo approccio ci conduce ad una nuova visione della Terra e dell’umanità, non più costituita da civiltà che cercano tutte allo stesso modo di ottenere potere e risorse e da popoli che combattono gli uni contro gli altri tutti secondo modalità conformi ai nostri modelli, ma da popoli totalmente diversi tra loro, alcuni dei quali saranno inclini alla guerra a differenza di altri che invece saranno pacifici, dove ad esempio alcuni adopereranno nel combattimento dardi e loro derivati mentre altri si rifiuteranno di usarli per considerazioni di ordine morale dettate dalla loro specifica cultura – si pensi agli aborigeni australiani, per i quali è immorale tutto ciò che viola la reciprocità uccidere-essere ucciso simboleggiata dal boomerang; pensare che un oggetto così banale come un dardo possa essere vietato sulla base di considerazioni morali è indicativo del fatto che ci troviamo di fronte a Logoi completamente differenti, e dunque a popoli che vivono in mondi diversi. Esistono dunque tanti popoli che pensano in modi completamente differenti e vivono in mondi così diversi che il loro studio – uno studio il cui obiettivo non è giudicarli distinguendoli in più o meno sviluppati ma comprende il loro modo di concepire il mondo – ci lascia attoniti.
Lo scopo della Geosofia è di raggiungere le differenti forme di pensiero che costituiscono l’umanità, le quali non rappresentano solo differenti interpretazioni della stessa realtà – come vorrebbero i multiculturalisti – ma costituiscono differenti realtà, differenti mondi che coesistono in modi diversi, a volte instaurando rapporti drammaticamente conflittuali, altre volte pacificamente.
2. Momento della Noomachìa come identità culturale dinamica
La Geosofia rappresenta una metodologia per descrivere le civiltà. L’idea centrale è che occorre riconoscere le civiltà come culture e come mondi definiti dai rispettivi popoli che li abitano. Nel secondo volume del progetto Noomachìa dedicato alla Geosofia [2], ho compilato una rassegna delle principali scuole di studio delle civiltà, da Danilevskij a Spengler, da Toynbee a Huntington, e molti altri ancora. Il volume della Geosofia costituisce una sorta di introduzione agli altri volumi del progetto Noomachìa, in cui vengono studiati i mondi e le civiltà specifiche.
Cos’è una civiltà? Per civiltà intendiamo una comunità collettiva che condivide una medesima visione del mondo e vive in uno stesso mondo: un popolo, un’entità geosofica o una comunità organica che condivide gli aspetti principali di una cultura e vive approssimativamente in uno stesso mondo i cui confini sono legati alla lingua, alla religione, ai valori, ad una comune visione del mondo e così via. A volte si tratta di un mondo davvero piccolo, come una tribù, altre di un mondo costituito da milioni di uomini.
Nello studio di ognuna di queste entità geosofiche, al fine di redigerne una sorta di rassegna, noi scorgiamo ovunque il “momento della Noomachìa”. Cos’è il momento della Noomachìa? Si tratta del punto di equilibrio nel conflitto tra i tre Logoi. Essi sono in lotta, e il momento tangibile di questa lotta corrisponde precisamente all’identità reale della specifica cultura o civiltà. Ad esempio, la cultura greca si basa sul dominio e sulla vittoria del Logos apollineo sul Logos di Cibele. Alla tradizione pelasgica pre-ellenica della Madre di tutti gli dèi – la Madre greca rappresentata nella cultura micenea e minoica – fa seguito l’invasione ellenica con valori apollinei completamente differenti. L’identità della cultura greca, il momento della Noomachìa, è precisamente il Logos di Apollo nelle sembianze di Zeus che sconfigge Crono, l’oracolo della Grande Madre. Il momento in cui il Logos apollineo prevale sul Logos della Grande Madre rappresenta una vittoria nella titanomachìa e la civiltà greca si basa precisamente su questo momento vittorioso. I titani, figli della Grande Madre, attaccano gli dèi; questi reagiscono e prevalgono, ma non è sempre così. Nel caso della civiltà greca, gli dèi olimpici vincono, Apollo vince su Cibele. Questa è anche una guerra del pensiero – Noomachìa –, un conflitto nel quale in questo caso il patriarcato vince sul matriarcato. La civiltà greca non è l’unica a basarsi su questo momento della Noomachìa. Anche la civiltà iranica ad esempio si basa su un’idea molto simile a quella greca perché c’è la vittoria di Ohrmazd, il dio della luce, su Ahriman, il dio delle tenebre. Due nomi diversi, ma la stessa simmetria, la stessa titanomachìa e la stessa vittoria. Due tipi di civiltà diversi fondate su momenti della Noomachìa simili. Lo stesso può dirsi per altre culture.
Al fine di definire il Logos sull’asse orizzontale delle concrete civiltà, dobbiamo definire il momento della Noomachìa in cui ci troviamo. Ad esempio, la maggior parte delle società indoeuropee – germanica, celtica, romana, greca, iranica, indiana – si basano sullo stesso momento della Noomachìa: la vittoria del Logos di Apollo sul Logos di Cibele. Noi abbiamo l’idea che ogni civiltà si basi sullo stesso momento, ma non è affatto così. Un esempio molto significativo è rappresentato dalla civiltà cinese, la quale è ben diversa dai casi finora citati poiché rappresenta una civiltà puramente dionisiaca in cui vi è un equilibrio tra Yin e Yang, tra maschile e femminile, tra cielo e terra, e non la dominazione del cielo sulla terra; in altri termini, la norma è l’equilibrio, non la vittoria degli dèi sui titani. Si tratta di una logica completamente differente. Non vi è un Logos apollineo ma dionisiaco. Tutto ciò che sappiamo sulla civiltà cinese, dal primo imperatore all’epoca contemporanea, da Qin Shi Huang a Hu Jintao, rappresenta un momento dionisiaco della Noomachìa, e ogni cambio di equilibrio avviene all’interno di questo momento dionisiaco. Così, i cinesi vivono in un mondo dionisiaco. Ma questo non è il “destino” dei cinesi; in altri termini, è errato affermare che tale momento durerà in eterno. Non si tratta di una prescrizione o della “verità finale”, la nostra è una rilevazione del momento nella Noomachìa.
Al fine di studiare le differenti civiltà, il primo passo è dunque quello di definire il momento attuale della Noomachìa. Nella fase successiva dobbiamo presumere che la Noomachìa possa cambiare, dacché il momento della Noomachìa non è statico bensì dinamico. Ad esempio, al fine di garantire l’equilibrio dionisiaco, la cultura cinese per migliaia di anni ha profuso tutti gli sforzi possibili. Lasciare che le cose andassero per il loro verso, senza intervenire attivamente, avrebbe rovesciato tale equilibrio. Non si può dunque dare per scontato che i cinesi si troveranno sempre in un momento della Noomachìa dionisiaco; se per ipotesi venissero colonizzati, o se la loro società venisse distrutta dall’interno, verrebbero a mancare gli sforzi esistenziali di milioni di persone tesi a mantenere stabile l’equilibrio dionisiaco tra Yin e Yang, il quale collasserebbe. Lo stesso vale in Europa. Se gli europei smettessero di battersi per Apollo, apparirebbe immediatamente Cibele poiché essa è sempre in agguato e attaccherebbe immediatamente nel momento in cui noi smettessimo di imporre la volontà apollinea.
Questo è un punto molto importante. Il momento della Noomachìa non va inteso come l’identità eterna – data per scontata una volta per tutte – di una cultura o civiltà. In ciò si manifesta il significato della storia come lotta dei Logoi. Ogni popolo ha una propria versione di questa lotta, e ogni cultura si trova in momenti diversi di questa Noomachìa, momenti definiti dalla proporzione in cui un Logos domina sugli altri: vi sono popoli in cui domina Cibele, come gli afroasiatici, i semiti, gli egiziani, i berberi, popoli naturalmente inclini alla prevalenza del Logos cibeliano, ma non si tratta di un destino già scritto poiché tale equilibrio può essere rovesciato, e di tanto in tanto questo accade. L’identità dei popoli è un processo, è qualcosa che muta, è dinamica. Il momento della Noomachìa può rimanere identico a se stesso o può cambiare. Le proporzioni in cui si presentano i tre Logoi possono variare da popolo a popolo, da società a società, e anche da un’epoca all’altra nella storia di uno stesso popolo, senza che peraltro vi siano mutazioni etniche o sociali.
Otteniamo così una struttura della Geosofia realmente dinamica e multilivello. Possiamo rilevare “differenze orizzontali” tra società che vivono in spazi geografici diversi, le quali possono avere simili o differenti momenti della Noomachìa, e anche se vi sono società che condividono lo stesso momento della Noomachìa esso può esprimersi in forme, e dunque identità, diverse. Inoltre, il fatto che si condivida lo stesso momento della Noomachìa non significa che ci sarà automaticamente un’intesa e una corrispondenza perfette; ad esempio, le relazioni dei greci, il cui momento della Noomachìa è apollineo, con gli iraniani, che condividono lo stesso momento della Noomachìa, sono state conflittuali, sebbene si trattasse di due forme del Logos apollineo. Allo stesso tempo, in ogni cultura, in ogni entità geosofica che consideriamo, possono verificarsi cambiamenti storici nella prevalenza degli elementi della Noomachìa – passando dalla dominazione del Logos di Apollo sul Logos di Cibele alla predominanza del Logos di Cibele sul Logos di Dioniso o ancora del Logos di Dioniso sugli altri e così via –, e la storia, la direzione di questi cambiamenti non è universale, poiché si tratta del prodotto di un processo dinamico interno al popolo. Pertanto, abbiamo molte civiltà che vivono nei rispettivi mondi con molti, differenti momenti della Noomachìa che prendono direzioni diverse: non procediamo quindi tutti verso Cibele, o verso Apollo, ma ognuno segue una sua strada.
La Geosofia implica il riconoscimento della molteplicità delle culture in ogni senso, nello spazio e nel tempo: tutti sono diversi e procedono lungo direzioni diverse, in spazi differenti e con un finale aperto. Ora si compari questo approccio con la concezione predominante della storia in cui vi è un solo spazio, un solo tempo, un solo obiettivo, solo una verità e una sola via per raggiungerla costituente la norma universale. In contrapposizione a questa concezione della storia umana puramente razzista ed etnocentrica, la Geosofia propone di scoprire i tanti mondi che vivono proprio qui sulla Terra: nuovi mondi, altri mondi vivono affianco a noi, mondi che tuttavia non rileveremo finché ci ostineremo a proiettare la nostra specifica e ristretta visione su di essi. A tale proposito, l’autore eurasista Trubeckoj una volta ha osservato, considerando la struttura di un libro di diritto scritto in Occidente, che al diritto romano e al suo sviluppo vengono dedicate un migliaio di pagine mentre solo due pagine vengono riservate al diritto cinese; così, il diritto romano viene considerato universale mentre degli altri sistemi giuridici non viene fatta neppure menzione, o se viene fatta si tratta di un richiamo superficiale per di più caratterizzato da un’interpretazione condotta dal punto di vista del diritto romano. Una situazione analoga si verifica nell’ambito della globalizzazione liberale moderna, che prevede l’affermazione di un’unica civiltà – la civiltà occidentale, che pretende di essere universale poiché basata sulla mescolanza – a scapito di tutte le altre, estendendo all’umanità intera la stessa cultura moderna e postmoderna occidentale (il concetto totalitario dei diritti umani, prettamente razzista poiché fondato sulla concezione occidentale di cosa è umano assurta al rango di norma universale, il sistema liberal-democratico, ecc.). Questo è tutto fuorché una visione basata su pluralismo e tolleranza. Si tratta di un vero e proprio razzismo colonialista fondato sui pregiudizi più brutali, a cui la Geosofia, per contro, oppone un invito alla alla rigorosa accettazione della ricchezza insita nella molteplicità dei popoli, delle società, delle civiltà.
La Geosofia assume dunque il compito rivoluzionario di distruggere l’approccio finora predominante al fine di ri-scoprire il mondo, di decolonizzare ogni civiltà e conferire all’altro da sé il diritto ad essere altro senza il bisogno di chiedere il permesso ai globalisti, a Soros, agli americani, ecc., e di affermare la propria identità autentica indipendentemente da ciò che la caratterizza – sia essa radicale, estremista, arcaica, ecc.
3. L’orizzonte esistenziale
La Geosofia si oppone all’approccio etnocentrico e colonialista dominante non dal punto di vista etico ma metodologico dacché il prospettivismo si basa sullo studio attento delle civiltà senza alcun pregiudizio. Ad esempio, noi che siamo russi e ortodossi, descriviamo negativamente le società cannibali poiché la pratica del cannibalismo per noi è satanica, demoniaca e indice di sottosviluppo; tuttavia, nel far questo noi non le stiamo esaminando in prima persona, interpellando i loro membri, ma le stiamo modificando attraverso la nostra particolare concezione. Si tratta della stessa pratica che utilizziamo con i popoli che ci circondano. E questo è fonte di malintesi, di equivoci. Tale approccio va dunque cambiato. L’idea della Geosofia è di studiare le società accettando ciò che i loro membri pensano essere la realtà, i valori, la natura, il soggetto e l’oggetto della storia.
Qui ci imbattiamo tuttavia in un grosso problema metodologico: come possiamo studiare differenti società utilizzando gli stessi criteri, dal momento che vi è un numero molto limitato di criteri comuni che possiamo applicare alle diverse società al fine di osservare se vi è qualche aperta corrispondenza? Per fornire una soluzione a questo problema, ho cercato di applicare la tricotomia dei Logoi spiegata nella prima lezione ad ogni civiltà, e ovunque, in ogni cultura che ho analizzato, ho effettivamente riscontrato chiare tracce di tutti loro. Vi è dunque qualcosa di veramente universale, ma al contempo presente in svariate combinazioni e in un perenne conflitto con un finale aperto. I tre Logoi sono presenti ovunque e ovunque lottano dando luogo alla Noomachìa: se vi è qualcosa di universale questi sono proprio i tre Logoi.
Ho cercato di rintracciare altri criteri utili nello studio delle civiltà e, seguendo Heidegger e la fenomenologia, ho introdotto in primo luogo il concetto dell’orizzonte esistenziale o spazio esistenziale.
Lo spazio esistenziale è il Da del Da-sein. Non si tratta dello spazio inteso in termini scientifici, ma dello spazio in cui risiede l’Essere; è lo spazio in cui si trova l’essere umano vivente e pensante, e che non esiste senza quest’ultimo. Non si tratta quindi di uno spazio geografico, che possiamo rintracciare sulla mappa. Dove vi è l’uomo che pensa e vive in collettività, con una lingua, una cultura, radici, un certo sistema simbolico, vi è uno spazio esistenziale, un orizzonte esistenziale, e dove abbiamo la stessa struttura dell’orizzonte esistenziale, abbiamo lo stesso Dasein e quindi lo stesso popolo o cultura. Il confine di tale spazio indica l’inizio dell’altro da sé. Questo è molto importante al fine di identificare, separare, creare una nomenclatura dei popoli, delle culture e delle civiltà. Se applichiamo altri criteri, più sofisticati, più elaborati, avremo a che fare con risultati secondari relativi a costrutti sovrastanti questo spazio esistenziale.
Il concetto di spazio esistenziale è molto importante ed è collegato al concetto di molteplicità dei Dasein. Ho discusso tale concetto con un allievo di Heidegger, il Professor Von Herrmann, a Friburgo, in Germania. Egli mi ha detto che Heidegger riteneva il Dasein universale, che vi fosse cioè un solo Dasein, perché in effetti egli era razzista, e pensava che il Dasein tedesco, europeo, greco-romano, fosse l’unico e il solo, dunque metteva da parte gli altri Dasein derubricandoli a qualcos’altro; per lui il Dasein era solamente uno, così come la filosofia era solamente una, il Logos era solamente uno, e si trattava precisamente del Logos europeo occidentale. Un etnocentrismo assolutamente legittimo, lo riconosciamo. Ma per Von Herrmann l’unicità del Dasein discende dal fatto che il Dasein è caratterizzato dall’essere-per-la-morte, e quindi è definito da Heidegger in relazione alla morte, che è la stessa per ogni essere umano. A questa argomentazione, che non condivido affatto, ho ribattuto che ogni cultura, ogni Dasein ha la sua specifica relazione con la morte, ed è precisamente nelle differenze esistenti in questo relazionarsi alla morte – che concordo nel considerare la più importante caratteristica del Dasein – che si manifestano la particolarità e l’originalità del Dasein e, in ultimo, la sua molteplicità. Questo risulta evidente nel mio secondo libro su Heidegger (ne ho scritti quattro) intitolato “Martin Heidegger: la possibilità di una filosofia russa” [3], dove ho applicato i criteri esistenziali di Heidegger al Dasein russo, scoprendo che la maggior parte di loro non funziona nel contesto russo. Noi abbiamo differenti relazioni con il nucleo delle realtà esistenziali, con la morte, con Dio, e così via.
Il Dasein è pertanto “multipolare” e l’orizzonte esistenziale ne definisce i confini naturali. Questi ultimi corrispondono in parte ai confini geografici, il che è ovvio poiché il popolo vive in un determinato spazio fisico. In tal senso, possiamo considerare lo spazio esistenziale come una sorta di spazio vitale, il concetto geopolitico di lebensraum. Ma allo stesso tempo, lo spazio esistenziale non può esistere senza un popolo, una lingua, delle tradizioni; in altri termini, se noi poniamo una popolazione mista in un qualche spazio, questo non rappresenterà uno spazio esistenziale.
Il Dasein non corrisponde solo allo spazio né unicamente al popolo, esso è la relazione esistenziale del Sein, l’Essere, con lo spazio, che passa attraverso il popolo, la cultura, il pensiero umano. Si tratta di un concetto davvero particolare, molto importante per la Geosofia poiché tale disciplina si occupa di studiare precisamente gli orizzonti esistenziali e dunque la relazione dell’Essere con lo spazio che passa attraverso la cultura, la lingua, le tradizioni, l’identità.
Nell’ambito della Geosofia, lo studio di un popolo non si traduce in uno studio etnologico basato su alcuni aspetti statistici o formali, ma nello studio del Dasein. A titolo d’esempio, se studiamo il popolo serbo in termini geosofici, dovremmo porci in primo luogo la seguente domanda: cosa significa essere serbo? Non è facile dare una risposta. Ogni riposta formale si rivela insufficiente. Poesia, filosofia, immaginazione, aspirazioni politiche: in questa domanda rientra tutto. Non si può fornire una risposta ad essa limitandosi ad aspetti astratti. Per rispondere a un interrogativo del genere è necessario scandagliare la storia, le vittorie, le forme statuali succedutesi, le sconfitte e gli errori storici dacché l’orizzonte esistenziale è connesso allo spazio e al popolo non in modo immateriale. Per ottenere risultati validi dalla ricerca geosofica occorre iniziare a studiare cosa è il Dasein ponendo la questione in questi termini. Heidegger riteneva il Dasein unico; noi conveniamo al contrario che vi sia una molteplicità di Dasein, ed è precisamente partendo da questo concetto di molteplicità che possiamo porci la questione di cosa significa essere serbo in termini geosofici, una questione che ha a che fare con qualcosa per cui il popolo ha pagato con il sangue lungo la storia della sua intera esistenza, e da cui dipende anche l’identità futura. La risposta a questa questione infatti non riguarda solo aspetti del passato o del presente; possiamo dire che si tratta di una questione “eterna”, concernente un’identità determinata dal trovarsi inscritti all’interno di un orizzonte esistenziale per cultura, lingua, valori, tradizioni, oltre che dal situarsi fisicamente, corporalmente in esso.
4. Il tempo esistenziale
Abbiamo fin qui discusso dell’orizzonte esistenziale, una nozione chiave senza la quale non è possibile indagare l’identità profonda delle entità geosofiche oggetto del nostro studio. Il secondo concetto chiave della Geosofia che andremo ora ad introdurre è quello di tempo esistenziale, anch’esso di origine heideggeriana.
In Essere e Tempo, Heidegger opera una distinzione tra due termini: Geschichtliche e Historische, entrambi traducibili con “storico”. A volte Heidegger usa il termine Seynsgeschichtliche, l’onto-storia, ad indicare la storia dell’Essere. Geschichtliche o Seynsgeschichtliche sono termini usati per rappresentare il tempo legato all’Essere. Se Da è lo spazio legato all’Essere, Geschichtliche sta ad indicare il tempo connesso all’Essere, il tempo dell’Essere o tempo esistenziale.
Henry Corbin, grande filosofo francese nonché uno dei massimi esperti nella tradizione esoterica islamica, nel tradurre Geschichtliche e Historische in francese, al fine di esplicitare la differenza tra i due concetti, ha utilizzato i termini “historique” (storico) per Historische e “historial” (istoriale) per Geschichtliche. Per istoriale intendiamo il genere di storia dell’Essere, la storia non come susseguirsi di fatti ma come successione di significati, di sensi. L’istoriale (Geschichtliche) rappresenta una forma di lettura esistenziale dello storico (Historische). Lo storico è il fatto che viene documentato, l’istoriale è la spiegazione del fatto, il suo aspetto ontologico. Nella storia, compiamo azioni, gesta, opere che possono essere storiche o istoriali. Affinché si rivelino istoriali, devono relazionarsi col Dasein, con la nostra identità, con le nostre profonde radici.
Allo spazio esistenziale si va ad affiancare dunque il tempo esistenziale. Il tempo esistenziale rappresenta la nostra interpretazione della nostra storia; sottolineo: nostra. I fatti contenuti in questa interpretazione della storia ci dicono tutto della nostra anima, del nostro sangue, del nostro spirito, mentre per altri potrebbero rappresentare eventi senza alcun significato. Ad esempio, la guerra in Kosovo per i serbi non appartiene semplicemente alla sfera dello storico ma è un evento che costituisce una parte cruciale dell’istoriale serbo, un momento chiave per comprendere cosa significa l’essere serbo prima e dopo gli eventi del Kosovo; la guerra in Kosovo rappresenta la fine di qualcosa, l’inizio di qualcos’altro e al contempo un conflitto eterno, e l’eternità di questo evento ha a che fare precisamente con l’aspetto esistenziale del Dasein serbo. Per noi russi è lo stesso con la seconda guerra mondiale, che per noi però è la Grande guerra patriottica, a dimostrazione del fatto che un evento può avere molteplici significati. Il significato di un determinato evento appartiene al popolo, al Dasein, e la realtà di cosa è stato, cosa è e cosa sarà dipende direttamente da tale relazione esistenziale con il tempo.
Husserl identificava il tempo con una melodia, cioè una sequenza di note musicali che sottende una logica, una tonalità per cui una nota è in qualche modo predefinita dalle note precedenti e la presenza di una nota stonata turba l’ascoltatore; allo stesso modo, la storia, o meglio la sfera dell’istoriale, non rappresenta una semplice sequenza temporale di fatti sconnessi ma una successione di eventi che ha una sua logica. La storia è musica, ma solo il relativo popolo o Dasein può comprendere appieno questa musica istoriale. In altri termini, essa non è universale; l’istoriale di ciascun popolo opera ad una particolare frequenza sonora tale per cui nessun altro è in grado di sentire e comprendere perfettamente la propria melodia. Non potendo quindi ascoltare perfettamente una melodia dall’esterno, risulta particolarmente difficoltoso esprimere delle valutazioni sulla condizione di uno specifico popolo, se esso stia vivendo una fase positiva o negativa, se si stia sviluppando o stia decadendo, ecc. Non ci sono criteri universali nell’ambito dell’istoriale, perché la relazione con tempo è una proprietà esistenziale del Dasein.
Orizzonte esistenziale (spazio esistenziale) e tempo esistenziale (istoriale) sono definiti entrambi dalla Noomachìa, poiché in ogni momento non si può esprimere la propria melodia nella storia o la propria identità come popolo situato nello spazio esistenziale senza fare appello ai tre Logoi e al conflitto che li vede partecipi. Esiste una sorta di equilibrio dinamico dei Logoi proprio di ogni popolo, per cui solo attraverso di esso si può spiegare l’istoriale e l’orizzonte esistenziale di un popolo. Possiamo immaginare i tre Logoi come tre tipi di chicchi di grano seminati nel campo esistenziale; essi germoglieranno e cresceranno, qualcuno di loro verosimilmente prevarrà mentre altri rimarranno nell’ombra; ogni terreno esistenziale farà crescere in modo diverso le differenti sementi, ma i tre tipi di semi saranno tutti presenti nell’orizzonte esistenziale. Il modo in cui essi crescono, si combinano e confliggono tra loro, varia da popolo a popolo; ogni popolo con il suo relativo istoriale presenta una specifica modalità di crescita dinamica dei tre tipi di semi.
Da quanto detto finora, ne consegue che la storia di un popolo è qualcosa di speciale che non può essere spiegata né compresa dall’esterno.
5. La misura
Qui ci troviamo difronte ad una contraddizione molto interessante. Abbiamo a che fare con molti mondi, culture, identità, che si sviluppano in varie direzioni, secondo differenti modalità e con diversi risultati. Ma come possiamo comprendere realmente tutte queste realtà, se siamo totalmente definiti dal nostro specifico Dasein, se apparteniamo al nostro orizzonte esistenziale, se viviamo in un momento della nostra melodia, del nostro istoriale? In altri termini, come posso io valutare ciò che sta succedendo al di fuori della Russia, possedendo io unicamente una visione russa delle cose, essendo io definito dal Dasein russo? Si tratta di un aspetto etnocentrico inevitabilmente incorporato nella mente umana. Come possiamo, in questo contesto, risolvere il problema di essere al contempo definiti dal proprio Dasein e di doverci occupare del Dasein degli altri? Si tratta di una questione metodologica molto interessante e al contempo molto complessa, senza risolvere la quale l’intera architettura della Geosofia perderebbe di senso.
Qui risulta cruciale l’idea della misura. Se noi insistiamo sull’universalità pura e cerchiamo di superare ogni etnocentrismo, non giungiamo a nulla, la nostra posizione diventa inconsistente, poiché non esistono spazio esistenziale e melodia che possano abbracciare la terra, l’intera umanità e la storia universale. Se pretendiamo di creare un sistema universale, privo di ogni forma di etnocentrismo, il solo risultato sarà che in esso si manifesterà una versione perversa, titanica, del nostro stesso etnocentrismo. In altri termini, noi non possiamo esistere senza etnocentrismo, e se tentiamo di negarlo totalmente, otterremo solo un etnocentrismo ancora più marcato, titanico – non a caso globalismo e liberalismo, nel loro universalismo e antirazzismo, si rivelano molto più etnocentrici e razzisti di quanto non fosse il nazionalsocialismo poiché essi concepiscono un solo fato, un solo destino per tutto il mondo, cosa che neanche i tedeschi hanno fatto, avendo questi ultimi cercato di imporre la loro visione germanica, certamente razzista ed esecrabile, su una scala ben più limitata; in definitiva i globalisti, con il pretesto di essere antifascisti, diventano iper-fascisti.
Noi non possiamo pertanto dirci universalisti, ma d’altro canto non possiamo neanche assumere una prospettiva totalmente etnocentrica, altrimenti l’indagine sulla Noomachìa si ridurrebbe alla storia del nostro specifico Dasein. Come risolvere questo dilemma? La soluzione passa dal riconoscimento dei limiti naturali dello spazio esistenziali e dall’approvazione del Dasein degli altri, il che non vuol dire essere disposti a scambiare il proprio Dasein con quello di altri, ma riconoscere agli altri il diritto a essere completamente diversi senza instaurare alcuna gerarchia. Non dovremmo eliminare le diversità procedendo nella direzione universalista, ma nemmeno imporre la nostra identità sugli altri in una prospettiva totalmente etnocentrica. Il concetto di confine assume qui una importanza cruciale. Per inciso, ciò di cui sto parlando non sono confini stabiliti una volta per sempre; in questo contesto i confini possono cambiare poiché i popoli possono svilupparsi, la loro identità può mutare e il momento della Noomachìa in cui si trovano può modificarsi, trattandosi di entità dinamiche all’interno del processo istoriale. Si tratta dunque di rigettare tanto l’universalismo quanto le posizioni scioviniste, riconoscendo il diritto ad essere etnocentrici, un diritto che però non può oltrepassare i confini dello spazio esistenziale. Questo significa essere legati alla propria identità, difendendola quando le possibilità lo permetto e le circostanze lo richiedono, ma riconoscendo al contempo l’innato diritto alla diversità. In questo modo, noi non superiamo l’etnocentrismo, né lo glorifichiamo eccessivamente.
Quella di cui sto parlando è una metodologia prettamente apollinea. L’essenza del titanismo o del Logos cibeliano, come descritta da Friedrich Georg Jünger nel suo famoso libro sugli dèi e i titani, è di non conoscere la misura. Sia il puro etnocentrismo che l’universalismo sfociano nell’imperialismo e nel colonialismo, cioè in un approccio smisurato in cui si manifesta per l’appunto l’essenza del titanismo. Contrariamente a ciò, la metodologia apollinea prevede che si rimanga all’interno dei propri confini, non esercitando alcuna supremazia al di fuori di essi, senza cadere nell’etnocentrismo sconfinato da un lato o nell’universalismo dall’altro, senza pretendere di essere il centro del mondo, o meglio l’unico centro del mondo: noi siamo il centro del nostro mondo – se non lo fossimo non saremmo centrati nel Dasein, nella nostra identità, nel nostro sacro territorio, nelle nostre tradizioni, nei nostri simboli e così via, in definitiva non saremmo un popolo – ma al contempo dobbiamo riconoscere agli altri il diritto di essere egualmente il centro del mondo, ai loro occhi, dei loro mondi, nei loro confini esistenziali. Possiamo chiamarlo etnocentrismo autoriflettente o misurato: noi siamo il centro del mondo ma riconosciamo agli altri il diritto a pensare a ad essere la medesima cosa all’interno dei loro confini esistenziali. Confini che pure non dovrebbero essere intesi in senso titanico, cioè come barriere assolutamente chiuse e invalicabili, trattandosi di confini tra spazi esistenziali viventi: come la pelle dell’essere umano non è impermeabile ma traspirante, così il confine esistenziale è aperto. Dovremmo lottare per i nostri confini, ma al contempo dovremmo permettere che qualcosa possa entrare e uscire da essi. Cionondimeno essi devono esistere e devono essere esplicitamente riconosciuti in senso non solo fisico ma anche e soprattutto metafisico, come confini tra orizzonti esistenziali.
Questa è l’unica via per costruire una Geosofia equilibrata e un mondo basato sulla multipolarità. Diversamente, giungiamo a una sorta di umanesimo privo di essenza, di contenuto, puramente formale, che costituisce l’altra faccia del puro razzismo, visto che per l’umanesimo liberale chi non condivide i suoi valori non viene ritenuto umano e merita di essere distrutto.
Ciò di cui stiamo discutendo ora non è qualcosa di astratto. Ad esempio, nella stesura e nella pubblicazione del volume di Noomachìa dedicato al Logos del Nordamerica, ho seguito precisamente la strada dell’etnocentrismo misurato. Potete immaginare quale sia la mia relazione con la cultura nordamericana: io semplicemente la odio. Occuparmene ha rappresentato una vera e propria sfida per me. Se avessi scritto una critica dell’imperialismo americano dal punto di vista russo, il risultato sarebbe stato caricaturale, sarei fuoriuscito dall’ambito della Noomachìa e non avrei ottenuto una descrizione del Logos nordamericano. Invece, scavando nelle profondità del Logos nordamericano, ho scoperto cose completamente diverse, a me totalmente estranee, e ho iniziato a comprenderlo. Non lo approvo, ma ora lo capisco, e comprendo da dove scaturisce la mentalità e il comportamento di quel popolo: nel loro titanismo, nella loro creazione di una civilizzazione artificiale post-tradizionale, nel loro tentativo di edificare una sorta di società americana su scala globale, essi sono consequenziali al loro Logos, che si basa sull’universalismo sin dall’inizio. Ripeto, non approvo tutto ciò, ma questo è perfettamente logico. Vi è un mondo americano, e vi è un Logos proprio del mondo americano che ho identificato nella filosofia pragmatica – una filosofia del tutto particolare, molto diversa dalla filosofia europea, fondata sull’inesistenza dell’oggetto e del soggetto, una filosofia molto interessante – da cui discende logicamente tutto il resto.
Un altro esempio: dopo questo volume, ho indagato i Logoi croato e polacco e, con grande stupore, ho scoperto che a dare inizio alle tendenze tradizionali slavofile non sono stati i russi ma i croati. I croati sono stati i primi slavofili. Davvero strano…
Riassumendo, vi sono molte cose che possiamo scoprire superando il nostro etnocentrismo. Allo stesso tempo, dobbiamo curarci di rigettare completamente l’universalismo imposto dai globalisti, il che tuttavia non implica riabilitare il revanscismo, il nazionalismo, il ritorno degli Stati-nazione e così via. Ciò di cui stiamo parlando è una nuova corrente, un nuovo modo di pensare. E ritengo che, se impariamo ad usarlo metodologicamente, possiamo risolvere molte questioni concrete nella sfera politica, culturale, scientifica, e in svariati altri ambiti.
Nelle prossime lezioni ci dedicheremo all’applicazione dei princìpi noologici e geosofici fin qui discussi a casi specifici.
[1] Aleksandr Dugin, Introduzione a Noomachìa. Lezione 1. Noologia: la disciplina filosofica delle strutture dell’intelletto, Geopolitica.ru, 27 maggio 2019. https://www.geopolitica.ru/it/article/introduzione-noomachia-lezione-1-noologia-la-disciplina-filosofica-delle-strutture
[2] Aleksandr Dugin, Noomahija: Geosofija: gorizonty i civilizacii (Noomachìa – Geosofia: orizzonti e civiltà), Academic Project, Mosca 2017.
[3] Aleksandr Dugin, Martin Haidegger: vozmozhnost’ russkoj filosofii, Academic Project, Mosca 2011.